RIC Festival, qualche riflessione su cosa accadrà dopo le Invasioni Creative. Giorno #6, in collaborazione con Atcl
Il teatro ha le sue porte. Girevoli. Ma è pur vero che una volta entrato è difficile volerne uscire. La maggior parte dei coinvolti nei laboratori in vista della performance The Book Of Blood in programma domani a Rieti come evento conclusivo del RIC Festival 2016 non era mai stata in un teatro, figuriamoci farlo. E così accadono cose strabilianti, come abbiamo visto nei giorni precedenti di questo diario giunto quasi al combaciare della sua circonferenza. Già, perché come un cerchio dall’ingresso si parte, a un ingresso si conclude. Da qui non c’è uscita, o non si vorrebbe ci fosse. Questo pensano coloro che hanno avuto l’occasione di lavorare questa settimana con Helen Spackman e Ernst Fischer, con il gruppo dell’Officina Sociale Black Reality, con la graphic novelist di origine tunisina Takoua Ben Mohamed e i suoi splendidi fumetti sulla vita di una ragazza islamica nella società occidentale; pensano che la porta non la vogliono varcare al verso contrario, ma che si possa continuare un percorso di pratica e coscienza sensibile.
Il teatro è uno spazio vergine che prende corpo dalla contaminazione di elementi personali, provenienti ciascuno dall’intimità di chi lo abita, di chi lo rende casa propria. È un’attività che prevede una forma di condivisione endemica, peculiare, incapace di lasciare le cose così com’erano. Questo era ciò che ci si attendeva, che le acque talvolta stagnanti di un’accoglienza commisurata alle condizioni d’emergenza muovesse la superficie con precisi richiami al rinnovamento della società multiculturale. Ma il movimento della membrana è nulla senza la capacità di coinvolgere le profondità marine, proprio per questo il progetto di ATCL Lazio (abilmente gestito dalla responsabile progetti speciali Isabella Di Cola) non può che avere una forma pilota, atta a veicolare delle esigenze verso una comprensione dei problemi locali di settore, affinché se ne possa trarre un ragionamento progettuale più incisivo e meglio finalizzato.
Qualche giorno fa, durante una delle prove di laboratorio, un danzatore che non ha dovuto mostrare documenti, e che quindi secondo una gestione amministrativa della vita umana è privo di identità, ne ha trovata una lasciando una richiesta speciale a Helen Spackman: «cosa farò quando andate via?» Ecco, caro danzatore senza nome, la tua richiesta non è di prima accoglienza, ma la potremmo dire di seconda o terza, stai cercando di chiedere alle amministrazioni che governano questa città di Rieti, la regione in cui ti sei trovato a danzare, che queste “invasioni” per quanto creative hanno bisogno di continuità, ché la fragilità va difesa come un valore e l’accoglienza è un percorso, non un documento. Pertanto, caro danzatore, sono io, siamo noi per te a dar voce a questa necessità di comporre un processo virtuoso, che sappia tener conto della delicatezza come dell’intervento, dei semi come del raccolto, perché da queste invasioni nasca una nuova società, ribollente di spirito, mescolata di sangue diverso, tanto da scriverci un libro. E allora davvero, sarà: The Book Of Blood.
Simone Nebbia
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