Alla vigilia del debutto di Relative Collider a Romaeuropa Festival, incontro la coreografa Liz Santoro nel foyer del Teatro Vascello. Una formazione classica alla Boston Ballet School e studi scientifici a Harvard sono in relazione con la sua attuale ricerca coreografica. Ecco cosa può succedere quando la danza incontra la scienza.
Mi potresti spiegare qual è l’origine della particolare struttura coreografica di Relative Collider?
Questa pièce è nata dal desiderio di trovare un contatto tra testo e movimento. Il co-autore della pièce Pierre Godard sta facendo un dottorato in Natural Language Processing. Inizialmente non sapevamo come fare per trovare un punto di contatto, ma lo abbiamo trovato nella possibilità di costruire una struttura di movimento binaria “destra-sinistra”. All’inizio la sequenza è stata scritta arbitrariamente, senza preferenze estetiche per quanto riguarda la composizione. Abbiamo 64 conti di movimenti del tipo “destra-sinistra”, in studio abbiamo iniziato a renderla deambulatoria nello spazio, ma allora la doppia ripetizione per esempio di un movimento con la gamba destra ci ha costretto a inserire degli “and” tra i movimenti.
È in questo modo che la nozione di ritmo è diventata importante nel vostro lavoro?
Facendo pratica dei 64 “conti”, ci sono gli “and” che ci aiutano a ricordare la sequenza, ma che anche aggiungono complessità. Ci sono poi i movimenti della parte superiore del corpo: non si tratta di scelte estetiche, ma di immagini provenienti dal nostro lavoro precedente. Sono immagini del corpo mentre compie azioni che lo autorizzano a fare le proprie scelte all’interno di uno spazio performativo. Questi gesti non vengono né da una coreografia scritta né da un’improvvisazione. Abbiamo preso le immagini corporee e le abbiamo messe in ordine, assegnando a ciascuna immagine uno dei 64 conti della struttura coreografica. Il testo, invece, è stato creato da Pierre che ha cercato nel database Gutenberg tutte le frasi che avessero la parola “and” nella stessa posizione degli “and” della nostra struttura di movimenti. Lui ha raccolto tutte le frasi e poi nella performance (dove Pierre Godard è presente in scena, leggendo il testo al computer, ndr) usiamo un software che presenta una nuova selezione su base casuale di 64 parole con tutti i relativi “and”, e di conseguenza si struttura il nostro movimento.
Fate in modo che il pubblico sia consapevole di questo aspetto?
Il pubblico può saperlo se si informa, se legge il programma di sala o se parla con noi. Questa è una questione importante, anche perché il nostro prossimo lavoro – For Claude Shannon – è importante per noi e ci stiamo chiedendo come fare per dare allo spettatore tutte le chiavi per comprendere. Oppure, ci stiamo chiedendo come si possa vivere la stessa esperienza senza avere preventivamente tutte le informazioni. Quando abbiamo fatto lo spettacolo al Théâtre de la Bastille a Parigi avevano preparato un vero e proprio dossier, ma non tutti lo avevano letto. A New York invece, avevano spiegato come veniva generato il testo.
Tu e Pierre Godard avete un importante background accademico, è importante per voi che anche i vostri collaboratori lo abbiano?
Questa è una questione molto viva. Per esempio Cynthia Koppe (danzatrice della compagnia, ndr) è formata dal punto di vista accademico oltre a essere una performer di talento. I nostri collaboratori sono tutti intelligenti, hanno interessi al di là del fatto di essere “corpi tecnici”. Io ho una laurea di una scuola molto “fancy”, Harvard, dove sono stata esposta al metodo scientifico e a conoscenze di grande respiro. Non accadeva lo stesso nel mio training di danzatrice classica, ma andare in scena è sempre stata la cosa più bella che io abbia mai fatto, dunque ho deciso di continuare. Credo che essere nell’ambiente accademico mi abbia aiutato a farmi certe domande. Ho continuato a danzare mentre ero a Harvard, organizzavamo degli eventi all’interno della scuola, nulla di “professionale”. Durante l’università sono stata invitata a lavorare con una compagnia di Cambridge, ma dopo la laurea pensavo di entrare a Medicina. Ho deciso però di prendermi un po’ di tempo prima di entrare nella scuola di medicina e poi…
Come mai dopo la Boston Ballet School hai deciso di entrare all’università di Harvard?
Sono stata fortunata ad avere questa formazione da danzatrice. Già durante la scuola ho potuto danzare con la compagnia, prima nei ruoli per bambini e poi nel corpo di ballo. Quando ho finito avevo chiara l’idea di cosa volesse dire danzare. Forse ho avuto un po’ di disillusione, c’era qualcosa che mi mancava. Questo chiaramente vale solo per me, è personale. Una mia compagna di scuola, Sarah Lamb, è oggi prima ballerina al Royal Ballet di Londra e ora vedo la mia carriera e la sua: vedo i ruoli ai quali lei può avere accesso, vedo quello che può fare. Lei ha una forte curiosità intellettuale e vedo che questo emerge anche dalla sua pratica della danza. A 17 anni, però, sentivo che c’erano delle cose che volevo sapere, che volevo conoscere. All’inizio pensavo di poter fare entrambe le cose, dopo però mi sono resa conto che stavo perdendo parte dell’esperienza da una parte e dall’altra. Mi sono trasferita a New York senza conoscere nessuno e cercando di espormi a modi completamente diversi di stare in scena. Ricordo che in quel periodo cercavo quasi di mascherare la mia formazione classica. Andavo a seguire workshop coi danzatori di Trisha Brown e, come molti danzatori a New York, mi sono creata la mia formazione scegliendo tra la grande proposta di lezioni e workshop. Quando ho visto i danzatori di Trisha Brown, per esempio, mi sono accorta che loro usavano i piedi in un modo completamente diverso dal mio, vedevo che i loro piedi avevano una forma diversa rispetto ai miei, li guardavo cercavo di capire il funzionamento del loro corpo nella danza.
Come hai conosciuto Pierre Godard?
Circa 10 anni fa, mentre lavoravo con Ann Liv Young. Abbiamo fatto uno spettacolo al Théâtre de la Bastille di Parigi dove a quel tempo Pierre stava facendo uno stage. Prima di allora lui lavorava come analista finanziario in una grossa banca. Aveva da poco lasciato il suo lavoro per lavorare in teatro. Ci siamo quindi conosciuti in teatro, siamo diventati amici e abbiamo iniziato a collaborare.
Qual è il ruolo della musica nello spettacolo?
Non abbiamo deciso a priori di usare il metronomo. Abbiamo chiamato il compositore Brendan Dougherty durante il processo di creazione. Lui ha guardato le prove e si è reso conto che il lavoro da fare per lui era davvero poco: la creazione era già forte e disse quindi di non volerci mettere mano. Quindi ci siamo chiesti: che cosa possiamo chiarire, con la musica, nello spettacolo? All’inizio per esempio la sua partitura mette in luce la nostra struttura coreografica. Il nostro compositore ha lavorato molto con l’idea di entropia, e non con quella di drammaturgia. C’è un momento nello spettacolo in cui tutta la struttura si inverte, la parte superiore del corpo continua a muoversi nello stesso modo, ma la parte relativa ai passi viene completamente invertita, creando così un palindromo. Dopo questo cambiamento diventiamo tutti più dipendenti dal testo di Pierre, perché il corpo deve attraversare un vero e proprio cambiamento, e dalla musica, con cui si crea una forte entropia. È stato importante trovare un modo per restare nel ritmo binario e allo stesso tempo nel momentum quando si realizzano gli effetti di questa entropia. I nostri corpi richiedono un supporto, che la musica ci offre.
Avete mai danzato in spazi diversi da quello di un teatro?
Non questo spettacolo. A New York abbiamo danzato alla Chocolate Factory, che è uno spazio molto piccolo, una “white box”. Questo pezzo non richiede necessariamente un teatro, ma richiede che ci siano tre pareti. Il movimento esplora le dimensioni della stanza, sarebbe molto complesso fare questo lavoro in uno spazio “senza limiti”. La nuova creazione, per esempio, la stiamo pensando per poterla realizzare anche in altri spazi.
Il vostro spettacolo sembra chiamare in causa due diverse categorie delle arti performative, quella di “danza” e quella di “performance”. Come vi ponete rispetto alla ricezione del vostro lavoro?
Con Pierre, abbiamo parlato molto della differenza tra danza e coreografia. Ci siamo chiesti cosa venga, prima di tutto, e la cosa più importante per noi è quello che chiamiamo “feedback loop” con il pubblico. Poiché danzo, non ho mai visto la pièce da fuori, ma capisco che per il pubblico possa non essere immediato quello che sta accadendo in scena, poi però tutti sono liberi di avvicinarvisi oppure no, ognuno è libero di aderire o meno, di partecipare o meno a quello che sta guardando accadere in scena.
Gaia Clotilde Chernetich
Romaeuropa Festival, Teatro Vascello 28-29 ottobre 2016
RELATIVE COLLIDER
durata 45′
Concept Liz Santoro, Pierre Godard
Con Pierre Godard, Cynthia Koppe, Liz Santoro, Lorenzo De Angelis
Suono Brendan Dougherty
Costumi Reid Bartelme
Direttore tecnico Sarah Marcotte
Produttore Fanny Lacour
Produzione Le principe d’incertitude
Coproduzione Théâtre de Vanves, L’Atelier de Paris – Carolyn Carlson, The Chocolate Factory, Abrons Arts Center
Supporto FUSED (French US Exchange in Dance), Point Ephémère, Jerome Foundation, DRAC Ile-de-France, Centre National de la Danse, ImPulsTanz Festival