RIC Festival, dalla pratica alla prassi. Una tavola rotonda sul tema dell’intercultura. Giorno #5, in collaborazione con Atcl
Dietro il muro e le tende tirate si sente il rumore dei bastoni, si sentono le voci e le risa di una relazione nascente, si avverte cioè nell’aria che sta per cambiare qualcosa. Oggi non si può stare in teatro perché ci sono gli allestimenti per gli spettacoli della sera al RIC Festival 2016. Si resta così in questo spazio di passaggio che moltiplica i suoni come in una palestra, che mescola cioè le voci in una struttura linguistica in cui non si saprà percepire una voce primaria, su altre secondarie, ma che lascerà l’impronta di una forma ancora da raffinare e intimamente condivisa. Sarà il patto, un momento dopo, l’accordo tra intenzioni e azioni collettive: una voce si erge sulle altre, officiante di una piccola cerimonia dirà in un italiano dedotto dalla necessità una parola definitiva a certificare un passaggio di stato. Silenzio! Sarà quello il momento in cui le voci si fermeranno, i rumori placheranno, le azioni sfilacciate di poco prima si faranno parte di un tessuto, ognuna veicolo di un desiderio espressivo comune: la realtà sta per lasciare il passo al teatro.
È in continuità con questa ambizione di raccordo tra dentro e fuori, tra vita e messa in scena, che si instaura una ricerca sul tema fondamentale dell’interculturalità (argomento della tavola rotonda in programma al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti con Lidia Ravera, il graphic-novelist Takoua Ben Mohamed, la scrittrice Gabriella Kuruvilla, l’antropologo Gianluca Gatta e la storica dell’arte Viviana Gravano), immaginata come uno spazio di comunità paritario, in cui non ci sia un assorbimento di esperienze in una cultura dominante – che definiamo di solito con il termine “integrazione” – ma si ammetta la compresenza di più lingue in una lingua, di culture in una multicultura interattiva. Proprio l’ambito linguistico sembra essere il terreno più fertile per evidenziare le differenze in una composizione basilare e certa, non rapsodica, ma al servizio di una partitura condivisa su piani omogenei. E proprio l’ambito linguistico offre i caratteri esemplari più definiti per una crescita interculturale, perché poggia su quel grado di necessità che si fa dire primario e non sostituibile; quel “silenzio” gridato in un coro confuso di voci è una scelta formale atta a un obiettivo concreto e senza equivoci, ossia interrompere la confusione e porre chiarezza di idee e finalità.
Ma se questo ancora rientra in una formula di integrazione, assecondando lo spunto si torna a quei contesti di vivacità dell’interazione che furono le società più antiche, capaci di regolarizzare le forme evolute delle proprie lingue su prestiti linguistici, sull’egemonia naturale di un termine seguendo la sfumature di significato più inerenti alle relative azioni, su un flusso continuo non cristallizzato di una sfumatura nell’altra, concedendo al tempo di modificare nettamente forme e contenuti delle scelte linguistiche. Questo è ciò che ha permesso, per esempio, la costituzione di lingue come il Sabir tra i popoli del Mediterraneo, codice di riferimento degli scambi commerciali composto da termini provenienti dalle appartenenze locali incontrate nei porti; una lingua comune nata per necessità di interazione, dunque, che ha la caratteristica di aver accolto per ogni significato (utile alla relazione commerciale, certo, ma capace di interpretare anche la riconoscibilità tra diversi popoli) quella parola che meglio imponesse un’incisiva eloquenza per definirlo. Ne nacque allora un linguaggio essenziale, non descrittivo, funzionale alla comprensione, ma non per questo privo di un fascino espressivo, quasi poetico.
Saprà il mondo contemporaneo rintracciare un nuovo approccio alla relazione? Per saperlo occorre un passo più deciso verso l’ingresso di accenti diversi in una pronuncia comune, perché l’articolazione facciale che dà forma alle parole si estenda davvero tra la massima e minima apertura, destituendo i livelli e con essi l‘autorità che ne articola le pratiche attuali. Se l’investimento di economie e idee ha pertanto preso in considerazione soltanto l’integrazione come forma di sostegno all’accoglienza, forse è giunto il momento di riconoscere un nuovo corso e che le risorse siano dichiaratamente impiegate per affermare la differenza, l’alterità, come stimolo concreto a ridefinire i caratteri di un’appartenenza. Dell’uomo, all’umanità.
Simone Nebbia
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