Muore Dario Fo. Nel giorno che il Premio Nobel 2016 raggiunge il cantautore Bob Dylan. Che cosa sta cambiando nella storia delle arti? Una riflessione dovuta
La morte mette un punto, è vero, ma non sarebbe così categorica se non generasse domande sulla sua natura in chi resta e sul lascito che ognuna delle possibili morti, per grandi o piccoli gruppi umani, determina nella società del tempo. All’alba è giunta la notizia della morte di Dario Fo, non è questa la sede per riscriverne una biografia che mai saprà dare più di un frammento sbiadito di quanto e cosa ha rappresentato per il teatro italiano e internazionale. No. A noi interessa diversamente focalizzare uno strano caso della sorte, ossia che Fo, che aveva ottenuto lo stesso riconoscimento con grande sorpresa di tutti nel 1997, se n’è andato il giorno di assegnazione del Premio Nobel per la letteratura 2016 al cantautore Bob Dylan, ovvero nel giorno di un cambio di paradigma del sistema di creazione/fruizione dell’opera d’arte, divenuta da oggi totale, oltre i confini territoriali della pagina di libro scritto.
Stamattina, appena la notizia è stata battuta dalle agenzie, la redazione di Pagina 3 (Rai Radio3) se l’è ritrovata in mano e ha risposto opportunamente con il breve audio di un’intervista (min 9 45), una delle ultime, a proposito del ruolo dell’arte, della scrittura in senso più ampio. Fo individua un nodo centrale definendo come «nella storia di ogni arte bisogna sempre partire dalla dimensione drammatica, quella più vicina al reale […], quello che succede attorno a noi, la cronaca, per poi passare al paradosso». Invita cioè in questo modo a riflettere sul ruolo stesso di cui la pratica artistica si fa carico nei confronti degli accadimenti del mondo; confida, il Nobel Dario Fo, come la creazione intervenga sul fatto reale con un forza travolgente perché stravolgente, come cioè l’estremizzazione del fatto sia possibile soltanto accogliendo l’anima oscura che lo sottace, sovvertendo così l’apparente misura, il modo in cui lo si mostra, per affinarne la carica eversiva e rendere universale la portata dell’accadimento; da quel momento in poi, quando cioè la realtà avrà subito, accolto, il complemento del paradosso, il segreto inscritto nella rivelazione, avremo forse la verità, avremo compiuto il passaggio definitivo verso l’acquisizione dell’esperienza.
Queste parole di Fo riecheggiano nel giorno della morte e aprono anche a una considerazione ulteriore, celebrando postuma la giustezza del suo contrastato Premio Nobel. La letteratura, cui si richiama il riconoscimento dell’Accademia svedese, ha premiato nel secondo Novecento non poche (ma nemmeno tante) volte un teatrante come sommo tra i sommi, ma raramente si è focalizzata l’attenzione su quanto ciò abbia dato conto dello specifico teatrale. Stando ai precedenti (Samuel Beckett, Wole Soyinka) o ai successivi (Harold Pinter, Elfriede Jelinek), si tratta spesso di scrittori che al teatro hanno dedicato gran parte della propria ricerca artistica, ma che non provenivano dalla scena; solo nel caso di Pinter abbiamo una formazione d’attore poi trasferita nella drammaturgia testuale, ma anche qui ci troviamo di fronte a un passaggio definitivo, dalla scena alla penna. Con Fo abbiamo l’unico teatrante puro, la cui scrittura è generata dalla scena e da essa non è mai uscita, il luogo cioè dove il paradosso prende una connotazione figurale, si fa sagoma, meglio ancora, si sublima sciogliendosi nel corpo che lo interiorizza e, infine, lo esprime. Il corpo è stato la sua letteratura. Da questo momento in poi, come un passaggio di consegne da Fo a Dylan, come ultimo colpo di teatro, la letteratura cui si ascrive il Nobel raccoglie la sfida della modernità, assimila la contaminazione ed estende la pagina di libro, che aveva saputo comprimere nel corpo di un attore in uno spazio chiamato teatro, fino a coricare le parole in un tessuto di note musicali.
Simone Nebbia