A ContemporaneaFestival 2016 la coreografa Gaëlle Bourges presenta in prima nazionale À mon seul désir. Recensione
È «nel cuore di una tenebra immensa», fisica e metafisica, che Gaëlle Bourges conduce lo spettatore di À mon seul désir: come il Marlow del romanzo di Joseph Conrad, l’opera si insinua in un territorio al contempo sconosciuto e colonizzato, risale il fiume delle simbologie e delle metafore e giunge infine in un’inaspettata zona franca, di terrificante bellezza. L’esplorazione della coreografa francese – presentata in prima nazionale in una delle serate conclusive dell’edizione 2016 di Contemporanea, festival che apre come di consueto la stagione del Teatro Metastasio di Prato –attraversa il corpo femminile, ineffabile e spossessato. Un corpo esposto allo sguardo del pubblico, proposto nella sua nudità in un’ostensione che non è mai ostentazione, ma banale – e straordinaria – umanità: un corpo antico e ancora rivoluzionario, come un ciclo di arazzi fiamminghi.
Naturalità ed eccezione costituiscono d’altro canto le contraddizioni, semantiche e concettuali, necessarie a rendere la complessità della creazione di Bourges che di magnifiche sinestesie estetiche, coreutiche e musicali ha costellato l’azione scenica. La partitura gestuale eseguita da quattro danzatrici sul palco del Teatro Fabbricone si fonde così con la lunga narrazione che la voce off della coreografa dedica alla descrizione e alla vicenda storica dei sei pannelli di tappezzeria intitolati La dama e l’unicorno, punto di partenza della performance. La trama e l’ordito dei sei arazzi a sfondo rosso, datati alla fine del XV secolo e tessuti nello stile millefiori, compongono un’allegoria dei cinque sensi, espressa attraverso le enigmatiche relazioni che intercorrono tra una dama sontuosamente abbigliata e un unicorno, un leone e una scimmietta. Soltanto il sesto pannello – noto come À mon seul désir (“il mio solo desiderio”) a causa della scritta che campeggia sulla tenda posta sullo sfondo – sembra scostarsi dalla tematica: la dama, circondata dalla sua corte di esotici animali, è qui intenta a riporre una collana in un cofanetto.
Mentre la descrizione dell’arazzo e delle suggestioni o interpretazioni che esso ha suscitato prosegue in un silenzio assoluto, i pannelli prendono progressivamente forma sotto gli occhi degli spettatori: in uno spazio scenico compresso e limitato al solo proscenio, separato dal resto del palco da un telo di velluto scarlatto, quattro donne completamente nude allestiscono progressivamente, come in un tableau vivant, le scene tessute dall’anonimo artigiano delle Fiandre. In una sincronia perfetta, muovendosi ipnoticamente lungo linee orizzontali e sotto una luce diffusa, Marianne Chargois, Agnès Butet, Alice Roland e la stessa Gaëlle Bourges decorano il telo con decine e decine di fiori, indossano le maschere che riproducono le fattezze degli animali, si immobilizzano imitando le posizioni della dama e delle bestie: l’esperienza visiva del pubblico è saturata sulla scena dalla riproposizione della bidimensionalità dell’arazzo, che lascia tuttavia presagire un sorprendente superamento. Quel Medioevo del quale l’arazzo è espressione e rappresentazione è, come ricorda la voce di Bourges, epoca in cui la fede è anche superstizione, in cui la verità è conforme, più che alla realtà, all’idea che di essa si ha. L’unicorno che compare in ciascun pannello è, nel fiabesco immaginario del Quattrocento, simbolo della verginità femminile: e la sua presenza nel ciclo di arazzi implica nuove e più profonde letture di esso. Santificata dalla cristianità – ma tuttora oggetto di una diffusa e latente ipocrisia – la verginità che La dama e l’unicorno sembra esaltare appare tuttavia intrecciata, sullo sfondo rosso dell’arazzo, con il sotterraneo desiderio di uno scatenamento dell’impulso contrario. Un’irrefrenabile vis
In una stupefacente torsione registica, preannunciata dalla cornamusa suonata da una delle danzatrici, una alla volta le donne scompaiono dietro il telo, distruggendo la pacifica sicurezza a due dimensioni dell’arazzo e del suo bestiario fantastico, seppellito sotto luci stroboscopiche e un crescendo musicale elettronico. This is the end, my beautiful friend: dietro l’arazzo e la verginità cristallizzata in un paradiso di fiori e animali c’è lo spazio per nuovi rituali, per nuove liturgie di corpi ferini. La totalità del palcoscenico, spoglio e immerso nella semioscurità, è adesso il luogo mistico di una misteriosa processione di uomini e donne nude, i volti celati da maschere da coniglio, che si muovono in file ordinate e parallele mentre una delle danzatrici intona i versi della celebre canzone dei Doors che chiudeva Apocalypse Now. Chimerici esseri, gli umani immaginati da Bourges –interpretati dai trentaquattro partecipanti al laboratorio tenuto dalla coreografa durante Contemporanea – non sono debitori né della tradizionale vulgata che associa al coniglio la frequenza nell’atto riproduttivo, né dell’estetica pop e maliziosa di Playboy.
Non c’è scandalo alcuno, nei loro sessi esposti: essi rappresentano semplicemente se stessi, azzerano con il loro porsi le macchine interpretative, morali e simboliche che, oggi come nel tardo Quattrocento, su di essi erigono religione e filosofia. Il nudo sembra assumere in À mon seul désir una valenza concettuale che completa e supera quella puramente estetica: lungi dall’essere una mera soluzione formale, esso è sostanziale e necessario. Bourges mette infatti al centro dell’osservazione dello spettatore l’oscuro oggetto sul quale sono stati tessuti nei secoli arazzi e imperativi morali: il corpo, nient’altro che il corpo. Quell’orrore che Kurtz annunciava sia in Cuore di tenebra sia nella pellicola di Ford Coppola – citata nel finale di À mon seul désir anche dal fragoroso rumore degli elicotteri, destinato a sommergere la voce della danzatrice – è qui la verità sottaciuta nei pannelli, il rimosso nella cultura e nel costume sociale, la possibilità negata di una decolonizzazione dalle sovrastrutture verbali e intellettuali che celano, dietro i fili di lana e seta di un arazzo, un’inarrestabile e vitale fisicità. È al corpo e ai suoi desideri, sconcertanti e semplici, che è affidata la sfida, perennemente attuale, ai totem e ai tabù.
Alessandro Iachino
visto al Teatro Fabbricone, Prato, Contemporanea 2016 – ottobre 2016
A MON SEUL DÉSIR
ideazione e narrazione Gaëlle Bourges
danza Carla Bottiglieri, Gaëlle Bourges, Agnès Butet e Alice Roland
con Gaëlle Bourges, Agnès Butet, Marianne Chargois, Alice Roland
e con l’apparizione di 34 volontari nel bestiario finale
musica XTRONIK e Erwan Keravec
disegno luci Abigail Fowler e Ludovic Rivière
costumi Cédrick Debeuf
assistito da Louise Duroure
maschere Krista Argale
alterazioni alle maschere del coniglio Corinne Blis
master sound, direttore di palco Stéphane Monteiro
amministratore, produttore, manager Raphaël Saubole
produttori associati Os
coproduzione Accueils-studio program: Ballet du Nord / CCN de Roubaix Nord-Pas de Calais diretto da Olivier Dubois; CCN de Tours diretto da Thomas Lebrun; Festival Rayons Frais / Tours; Ménagerie de Verre
con il supporto di French Ministry of culture and communication/DRAC Île-de-France within the context of an “aide au projet” grant; ADAMI, performing artists society; Vivat, scène conventionnée d’Armentières within the context of its residencies policy.