Claudio Morganti ha presentato a Prato, nel programma di Contemporanea Festival le serate Four Little Packages. Intervista
Dal 27 al 30 settembre, nell’ambito del festival Contemporanea 2016, nei sotterranei del Teatro Magnolfi di Prato, si sono svolte le serate del progetto Four Little Packages di Claudio Morganti. Ciascuno degli appuntamenti presentava uno «spettacolino di varietà a sfondo culturale». La struttura di ogni serata obbediva, inoltre, a una chiara e stabile sequenza, divisa in quattro parti o momenti: ascolto di un’introduzione musicale (Area, Osanna, Garybaldi, B M S); quattro conferenze tenute dallo stesso Morganti su un tema specifico (Improvvisazione, Territorio, Morte, Spettatore); un breve intervento di un ospite, invitato da Morganti a pronunciarsi sul tema oggetto di studio della serata (nell’ordine, hanno partecipato: Massimiliano Civica, Piergiorgio Giacchè, il sottoscritto e Attilio Scarpellini); infine la lettura di Morganti di alcune scene del Woyzeck.
Si tratta di un progetto che unisce la dimensione dello studio e la pratica artistica. Chi scrive ha voluto intervistare Morganti, chiedendogli tanto di offrire una testimonianza diretta del ciclo, quanto di esprimersi sul tipo di rapporto che intercorre precisamente tra lo studium e la praxis dell’artista.
Come è nata l’esigenza di collocare, in uno stesso spazio e nella medesima sera, la dimensione artistica (musica, lettura) e quella dello studio (la tua conferenza, la relazione dell’ospite)?
Da qualche tempo, vado sostenendo che il territorio di conoscenza e competenza di un attore si costruisce nell’arco di un’intera esistenza (ma questo lo diceva già Mejerchol’d), e che si compone di due grandi direttrici: pratica e studio. Sostengo, inoltre, che se vogliamo che questo territorio sia solido e fluido nello stesso tempo, se vogliamo che sia in movimento, liquido e spaccato, dobbiamo cercare di bilanciare in egual misura pratica e studio. Non separando i momenti (quello della pratica da quello dello studio), ma – per quanto è possibile – farli coincidere, metterli in atto contemporaneamente. Fare in modo, cioè: A) di studiare mentre si pratica, e B) di praticare mentre si studia.
Se vogliamo addentrarci brevemente nella questione metodologica, chiediamoci allora come questo possa verificarsi.
A) Studiare mentre si pratica.
Per esempio, esiste una modalità di prova che io chiamo semplicemente “ripasso”. È una sorta di citazione leggera del percorso. Una specie di memoria in piedi. Si tratta di mantenersi in prossimità dell’azione, senza precipitare al suo interno. Una condizione che permetta, a seconda dell’estro, di entrare e uscire dall’azione a piacimento.
Non “mettercela tutta”, insomma, ma tenerne un po’ per sé. Direi un bel po’ per sé! Concedersi il lusso di riflettere su ciò che si fa, nel momento stesso in cui lo si sta facendo. (Moltissimi attori non riescono a provare in questo modo: o si buttano anima e corpo, o stanno completamente fuori dall’atto. Si precludono, cioè, la possibilità di studiare mentre praticano).
B) Praticare mentre si studia.
Diciamo che questo è quel che ho cercato di fare con Four Little Packages.
Che cosa dovrebbe fare un conferenziere? O meglio, che cosa dovrebbe fare un attore in veste di conferenziere, un attore che volesse rinunciare ai tic e ai “birignào” di qualsivoglia “personaggio”? Qual è dunque, in una parola, l’azione di un conferenziere? Naturalmente, è cercare di far capire in pieno ed in profondità quello che dice.
Questa finalità è ciò che informa l’azione e che porta inevitabilmente ad uno svolgimento del compito, utilizzando tecniche attorali. Se si vuole raggiungere lo scopo, è necessario, per esempio, misurare toni, intensità, pause.
Si tratta, in realtà di esercitarsi, dato che siamo in teatro, nel gioco dell’arte della retorica, la quale viene descritta come l’arte del parlare e dello scrivere secondo precise regole, al fine di istruire, persuadere, dilettare e commuovere. Se poi la conferenza è scritta dall’attore stesso, l’assunzione di responsabilità (indispensabile, qualunque cosa si faccia di fronte ad un pubblico) viene ancor più favorita.
Pensi che la sequenza musica-conferenza-intervento ospite-lettura fosse l’unica possibile? Credi che, variando l’ordine dei fattori, il risultato non sarebbe cambiato, o avresti ottenuto qualcosa di diverso?
Sicuramente variando l’ordine avremmo avuto un risultato diverso. Si tratta di quattro segmenti distinti, e se vogliamo provare ad immaginarli, ad esempio, come quattro suoni, qualunque combinazione si scegliesse darebbe una melodia differente. Mi pare comunque di poter dire che la sequenza scelta fosse la migliore possibile.
Le relazioni degli ospiti – di cui eri all’oscuro, fino al salire sul palco la sera stessa – hanno contribuito in un qualche modo alla ricerca del teatro, durante il momento successivo di lettura?
Credo proprio di si, ma in una dimensione strettamente tecnica, direi. Mi spiego. Passare dalla modalità “conferenza” alla modalità “Woyzeck” è davvero un gran salto. È pur vero che, in scena, si può fare un grande salto con un battito di ciglia, ma potersi concedere il lusso di dieci minuti di vero depensamento, ascoltando per la prima volta l’intervento di un ospite, trasformandosi, cioè in attento spettatore, aiuta molto. Ciò consente, nella successiva lettura, di tentare i ritmi e i colori del Woyzeck, ripartendo da una posizione sufficientemente neutra e vuota.
Credi che, come lo studio aiuta l’artista a diventare più consapevole della qualità della sua pratica, così anche lo sguardo dello studioso può essere trasformato dall’esperienza artistica?
Per rispondere a questa domanda, credo sia importante descrivere la modalità partecipazione dell’ospite. In un punto preciso della serata, egli sale sul palco, si siede su di un piccolo sgabello frontale al pubblico, e viene investito da una forte luce di un sagomatore.
Una situazione estrema, se vuoi, o quantomeno scomoda per chi non è avvezzo al palco. Ma non si è certo trattato di un dispetto, bensì di un offerta. In cambio della squisita disponibilità degli ospiti, ho inteso dar loro la possibilità di provare una situazione anomala, forse affascinante proprio perché pericolosa. Trovarsi per dieci minuti in una situazione fisica e climatica molto prossima a quella in cui sempre si trovano gli attori, tra l’altro, può aver dato loro qualche informazione concreta rispetto allo “stare in scena”.
Hai trovato qualcosa di imprevisto, rispetto alle ambizioni originali?
Nessuna ambizione, solo un desiderio: star bene in scena. E contrariamente a quanto si potrebbe pensare, quel desiderio non viene soddisfatto quando tutto fila liscio, bensì quando il percorso è una lunga sequenza di imprevisti.
Enrico Piergiacomi