A Romaeuropa Festival 2016 arriva Forced Entertainment, una delle compagnie più importanti a livello internazionale. Abbiamo visto il loro Complete Works – Table Top Shakespeare e intervistato Cathy Naden, membro del nucleo creativo del gruppo.
Forced Entertainment è una delle compagnie più celebri della contemporaneità teatrale. Nato a Sheffield nel 1984 da un’idea di Tim Etchells, che ne è tuttora il direttore artistico, il collettivo ha all’attivo più di cinquanta titoli tra spettacoli teatrali, installazioni, lavori site-specific, progetti fotografici e video, supporti interattivi e long durational performance. Costituendo un esempio forse irraggiungibile, niente può ricostruire la loro storia meglio del loro stesso sito web, un vero e proprio archivio onnicomprensivo ed eccezionalmente organizzato che raccoglie schede artistiche, video promozionali, commenti degli spettatori, risultati di bislacchi sondaggi, rassegne stampa, contributi di colleghi illustri e frammenti di diario dalle tournée che hanno toccato l’intera Europa, ma anche Giappone, Australia, Canada e Stati Uniti.
Li abbiamo visti portare a Romaeuropa Festival Complete Works. Table Top Shakespeare, una rassegna integrale di tutti e trentasei i testi del Bardo, riproposti in forma di racconto informale, in cui un attore o un’attrice – che si avvicendano di sera in sera alla prova con diversi titoli – narrano le vicende seduti a un tavolo, dove animano una miriade di oggetti di uso comune.
Allora il Malvolio de La dodicesima notte si trasforma in un martello, i gemelli Viola/Cesario e Sebastiano sono due spray della stessa marca, lui un po’ più alto di lei; Giulio Cesare è una bottiglia d’olio assassinata da un Bruto/salsa di pomodoro e difeso da un Marcantonio/zuppa di carne in scatola; mentre l’avido Enrico V è un barattolo istigato dall’Arcivescovo di Canterbury rinchiuso in una bottiglietta di bitter.
Ai due lati della scena si ergono dei rozzi scaffali di ferro che custodiscono l’intera dispensa dei personaggi, etichettati con il titolo di ciascuna opera. Lo spettacolo, ospitato all’Opificio Romaeuropa, è un inno all’immaginazione e all’arte della narrazione, dell’animazione, verso un recupero del feticcio ancestrale. Allora, se le commedie hanno il sapore dell’infanzia giocata in una stanza in cui le bambole diventavano principesse di leggiadra bellezza, le tragedie ricostruite con flaconcini e saliere si tingono di un’ombra ancora più lugubre: sparita la prosopopea del verso shakespeariano, basta una schicchera a segnare una morte, mai più eroica ma resa del tutto materiale, quasi “banale”, nell’accezione harendtiana.
Abbiamo avuto il piacere di conversare con Cathy Naden, membro del “creative team” della compagnia, seduti al tavolino di un bar su via Ostiense di fronte a un cappuccino.
Come funziona il vostro collettivo?
Forced Entertainment è una compagnia privata che ha un numero di registrazione charity, quindi è sostenuta dalla National Lottery. Abbiamo, diciamo, una sorta di programma di lavoro, in parte dettato dal supporto che riceviamo, tramite fondi triennali utili a gestire la compagnia da un punto di vista amministrativo, dall’Arts Council of England. Ogni tre anni, dunque, presentiamo già una prima idea di ciò su cui lavoreremo. In genere puntiamo su un progetto più ampio che coinvolge più persone in scena (il nucleo è di cinque persone oltre a Tim Etchells) ed è quello destinato a circuitare, circondato da altri più piccoli progetti laterali. Oltre all’Arts Council (che oltretutto al momento sta attraversando profondi cambiamenti a causa della politica di austerità e ovviamente in seguito alla Brexit) possiamo contare su altri coproduttori, principalmente teatri in giro per l’Europa e, ad esempio, sul Pact di Essen, che ci ha sempre sostenuto molto.
Da un punto di vista creativo, qual è il vostro processo di lavoro?
Cominciamo a lavorare senza avere un programma preciso, non ci interessa partire da un tema specifico. Ci piace piuttosto immaginare che siano i materiali che portiamo di volta in volta in sala prove a dirci su che cosa stiamo lavorando. Quando presentiamo le idee per il finanziamento triennale basta un titolo e il numero di persone coinvolte, ma non serve di più. Partiamo da frammenti e procediamo soprattutto per improvvisazioni, Tim è molto attivo soprattutto come osservatore, un occhio esterno, quindi è lui spesso a darci qualche frammento di testo con cui noi ci mettiamo a giocare. Per esempio, una delle domande fondamentali di un lavoro precedente è stata:«che cosa rende una storia una buona storia?». Abbiamo passato intere settimane in riga sulla scena, ciascuno di noi proponendo una lista di elementi che potessero rispondere alla domanda: una trama, i suoi personaggi e via dicendo. Ci serviamo sempre di un filmmaker che riprende tutte le prove, quindi quando escono fuori delle buone improvvisazioni cominciamo a guardarle tante volte, a volte le trascriviamo e le impariamo a memoria come fossero un testo. In quel momento Tim sale sul palco e ci dà qualche suggerimento, qualche indicazione per interagire, senza tuttavia mai diventare un vero e proprio regista. È piuttosto colui che si prende la responsabilità di decidere, di avere l’ultima parola sulla gran quantità di materiali che tutti producono, ponendoli in una struttura e nello spazio dopo lunghe discussioni. Ma questo momento arriva più tardi, solo dopo un paio di mesi di veri e propri giochi, in cui ci si riunisce, si propongono frammenti (testuali o di movimento) e poi qualcuno prova a porre, a proposito di quel frammento, una domanda del tipo: «Che cosa accadrebbe se questo diventasse uno spettacolo?».
Una sorta di approccio critico al materiale creativo.
Sì, diciamo che per Forced Entertainment l’atto di “performare” non si identifica con il semplice recitare: recitare è anche dirigere se stessi, prendere decisioni tutto il tempo. La compagnia esiste da trentadue anni, dunque è chiaro che tra noi esiste una sorta di linguaggio condiviso: io so che se eseguo un dato movimento, un altro mostrerà una specifica reazione, che lo sviluppa, lo porta avanti.
Non tanto in Complete Works, che ha una struttura molto diversa, ma in molte vostre creazioni lo spettatore acquista un ruolo fondamentale. Che tipo di contratto viene negoziato con chi guarda lo spettacolo?
Di certo possiamo contare su una sorta di fan base, di seguaci del nostro lavoro. Ma non pensiamo mai in funzione di che cosa il pubblico sarebbe interessato a vedere. Innanzitutto è per noi che deve avere senso quello che facciamo. Abbiamo sempre provato interesse nel rivolgerci direttamente al pubblico. Nel 2001 andammo per la prima volta in un teatro all’italiana e portammo First Night, uno spettacolo interamente basato sul dialogo con lo spettatore. Era una sorta di bislacco vaudeville, pieno di costumi appariscenti e pacchiani, qualcosa a metà tra la brutta televisione e il varietà, immaginando lo showbusiness più alla moda quando ogni cosa va per il verso sbagliato. Per tutto lo spettacolo tenevamo dei sorrisi finti stampati sul volto, continuando a gratificare il pubblico con frasi del tipo “siete la platea più incredibile che abbiamo mai avuto” e ovviamente finiva con un fiume di insulti agli spettatori. Ci divertivamo molto, ma era anche un modo per avvicinarci all’idea dell’abuso dell’altro, diventando un vero problema per gli spettatori e Tim scrisse un testo molto bello per il programma di sala, incentrato su quanto fosse confortevole essere uno spettatore e sedere al buio di una sala teatrale; ma che cosa succede se si punta un faro su di te? E allora un sorriso immediatamente diventava un ghigno.
Certo, quando si rompe quella convenzione, si ha davvero la possibilità di influire sulla comunità a cui ci si rivolge. Allora ti chiedo: per te il teatro può avere una funzione politica nella società?
Vorrei pensarla così. Credo che il nostro sia un lavoro critico e politico, con una “p” molto piccola, magari. Ne parlavamo giusto ieri sera: un nostro amico ha scritto un articolo a proposito della compagnia, e parlava del nostro come un atteggiamento etico più che politico. C’è qualcosa che riguarda la posizione che assumi rispetto a quello che dici e che fai.
Di certo etica e politica, soprattutto oggi, hanno (o dovrebbero avere) qualcosa in comune. E questo che racconti è un modo per riportare alla luce una coscienza critica e dunque politica.
Sì, anche solo il fatto di lavorare come un collettivo per più di trent’anni riguarda la posizione che assumi nei confronti della società e della cultura. E in questi trent’anni ci siamo visti passare dai margini al centro della scena, avvicinandoci a una certa ortodossia che non faceva parte del nostro assetto iniziale. In fondo questo somiglia in qualche modo a una dichiarazione politica.
Sergio Lo Gatto
traduzione dall’inglese a cura dell’autore
Leggi l’intervista a Tim Etchells a cura di Chiara Pirri
COMPLETE WORKS