Aspettando RIC Festival, tra riunioni e prove il gruppo di The book of blood alla ricerca di una definizione. In collaborazione con ATCL. Giorno #2
«Cioccolato? Banana Banana…. I. love. You!» Cosa dicono quella trentina di ragazzi provenienti da Pakistan, Egitto, Marocco, Germania, Afghanistan, Senegal, Uganda, Iran, Inghilterra Italia (e altri se ne aggiungeranno, probabilmente)? Giocano a comunicare utilizzando un linguaggio codificato, estremamente limitato, tanto da poter esser assolutamente libero. Protetti dal cerchio di persone (il Cerchio) e guidati dall’incitazione del battito di mani degli altri, si alzano a turno andando al centro, scegliendosi. Banana si salutano, Cioccolato qualcuno nega, I love you, ti scaccio e poi I love you I love you tengo un comizio. Caos, respiro. Inizia una tenzone tra due, che si guardano e come fiere si studiano; improvvisamente una si avvicina all’altra, sussurra qualcosa. Il Cerchio è proteso, sorprende il cambio di prospettiva, quasi abituato ad avere la chiave d’accesso capisce che deve spostare la propria comprensione su un altro piano, non verbale. La scena si ripete, si scambiano di posto. È qualcosa di importante, che deve esser sussurrato, che rimane nello spazio tra le labbra e l’orecchio. Improvvisamente si rompe la routine mentre uno dei due urla: «banana!».
#indoormeeting for #thebookofblood at the Rieti Caritas, n. 2 Organizing the celebration about human rights, playing, singing, acting, dancing, reading, cooking #blackreality #Leibniz #sprar #theatre #RIC_festival Una foto pubblicata da Teatro e Critica (@teatroecritica) in data:
Attraverso un semplice gioco d’improvvisazione ragazzi che non si conoscono, molti dei quali non hanno avuto esperienza teatrale, che soprattutto parlano lingue diversissime, esperiscono la libertà del poter giocare in un luogo protetto, istaurando – scoprendo anche così di poter istaurare – una relazione tra loro. Mentre scrivo nel foyer del teatro Vespasiano li sento urlare di gioia, cantare happy birthday a Gianluca che oggi compie gli anni. Non solo dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19, credo che anche fuori dalle ore di laboratorio condividano un pensiero comune, curiosità, voglia di continuare a stare assieme. Magari non ci stanno pensando, ma, indirettamente stanno mettendo in atto alcuni dei loro diritti, nel rispetto e nell’ascolto dell’altro, il che corrisponde in pieno al fine ultimo del Libro di sangue. Il progetto che sta animando Rieti, o almeno una parte, è una macchina in fieri, che parte dalla fine (la performance) e torna indietro puntando al processo. La sfida e la difficoltà di mettere in moto una macchina mutevole come questa porta Helen ad avere un po’ di preoccupazione riguardo il percorso. Ma, le risponde Hernst, è anche questo The Book of Blood, un’azione sempre diversa, sempre in costante mutamento in base ai gruppi con i quali avviene l’interazione.
La mutevolezza appartiene a queste giornate, al tempo climatico che balza fino al caldo nuvoloso al cielo terso e freddo. Si passa dal discutere riguardo un’eventuale rivoluzione degli spazi teatrali per cui tocca pensare cosa quando e come illuminare, se riempire i palchetti di secondo ordine di lettere scritte nelle lingue dei partecipanti; valutare quando andare da “Her Majesty”, la facoltosa signora araba che abita in via della verdura ma che in verità vende artigianato libanese. E chiamare i catering avendo cura di non eccedere con gli alcolici data la grande presenza di mussulmani, e riuscire a mettere in contatto le realtà diverse di volontariato, e capire dove inserire il concerto che ieri ascoltavamo di nascosto da dietro il sipario.
La mutevolezza impone di accettare il fatto che l’intero processo abbia una struttura necessariamente fluida. Accogliendo il ritardo, la ripetizione, sempre ascoltando. Come l’incontro fatto questa mattina all’interno della Caritas di Rieti, in cui i ragazzi di Black Reality e quelli del centro, in un racconto che passa dall’inglese all’italiano al francese, capiscono da dove parta e dove confluirà il loro stare lì. Che il nove sarà prima di tutto una celebrazione e che, per entrare, agli spettatori verrà chiesto di donare una singola goccia di sangue che un calligrafo userà per riscrivere i trenta articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani. Ma li tranquillizza perché loro avranno già donato qualcos’altro, ché la loro partecipazione non passa per un’azione forte, ma dal loro libero contributo. Che il teatro in questo caso si fa da parte a favore dell’uomo. I love you.
Viviana Raciti