Vincenzo Schino e Opera presentano FILM -Macchina della vista e dell’udito al festival Teatri di Vetro nella cornice site-specific della Fondazione Volume!. Recensione
Una spettatorialità diversamente teatrale conduce gli adepti di Vincenzo Schino e della compagnia Opera a seguirne la creazione. Entrati in contatto per la prima volta con questa grezza manodopera artistica non si riesce a interrompere il legame: al primo “spettacolo” seguirà il secondo e poi saremo incuriositi dal terzo e così via. Impossibilitati dal rifiutare quel peculiare ruolo affidatoci e al quale corrisponde la scelta consapevole di volerlo accogliere e quindi di esserci, affrontiamo l’entrata in sala come una sorta di rito di iniziazione mai concluso. L’offerta di “manufatti teatrali” sempre mutevoli e che dell’indefinitezza fanno la propria stessa definizione ci coglie impreparati, esterrefatti, nella piena responsabilità del passaggio di testimone; potremmo sentirci allora distanti o intimamente coinvolti, potremmo anche solo rimanere a guardare anteponendo tra noi e “la creatura” un filtro, potremmo finanche non capire le motivazioni drammaturgiche che risiedono alla base… Ma servirà ben poco o almeno non sarà così importante ai fini dell’esperienza.
In FILM-Macchina della vista e dell’udito – presentato come lavoro site specific nell’ambito del festival Teatri di Vetro – l’aspetto empirico risulta primario: non solo il ruolo dello spettatore teatrale sembra vivere di una nuova ricollocazione, come del resto in tutti i lavori precedenti di Schino, ma parallelamente si ridefiniscono i contorni di colei che ha il compito di darne restituzione critica in queste pagine. Ricreeremo quindi la suggestione dell’esperienza affinché si possa quasi ripercorrere le fasi di fruizione inserite nel breve percorso dalla durata circa di un’ora.
Nell’angusto e cavernoso spazio della Fondazione Volume!, prendono posto una decina di persone, non di più. I soffitti alti e l’aria rarefatta di un ambiente umido subito collocano chi guarda in uno stato volutamente distante dall’ordinario. Davanti, racchiusa da una delle volte, una grande tela di 30 metri arrotolata su due rulli; poco distante sul lato destro una lampadina dalla luce calda ma fioca quasi fosse di una candela. Si spegne.
«E voglio che tu scelga un momento nel passato in cui eri una bambina piccola piccola. E la mia voce ti accompagnerà e la mia voce si muterà in quella di tua madre e di tuo padre, dei tuoi vicini, dei tuoi amici, dei tuoi compagni di giochi e di scuola, della tua maestra. E voglio che ti ritrovi in classe, bambina piccolina che si sente felice di qualcosa, qualcosa avvenuto tanto tanto tempo fa, qualcosa tanto tempo fa dimenticato…»
Al buio, il bisogno naturale e quasi fisiologico di chiudere gli occhi s’infila placidamente nella nostra mente e, spinti ad accantonare lo sguardo, cediamo all’ascolto acusmatico; l’azione vocale, non del tutto pervasiva e dotata di una discrezione troppo spiccata che sembrerebbe renderla insicura, è di Catia Gatelli, seduta di spalle, qualche sedile di legno più avanti.
«…ho visto la terra ghiacciata – il mio occhio si avvicinava sempre più – vedevo gli alberi più da vicino ricoperti di ghiaccio – l’erba era bianca – vedevo uomini immobili ognuno in un gesto diverso e immortale – anche loro ghiacciati – i loro occhi erano ghiacciati e i capelli e le loro bocche erano ghiacciate – il suono delle loro voci era ghiaccio profondo – il battito del cuore era un’eco gelida».
Un rumore metallico di ingranaggi, come di qualcosa a cui sia stato tolto un fermo, risveglia e incuriosisce gli occhi i quali, spalancati e un poco umidi, si aprono sulla grande tela che inizia a scorrere e con essa continua a scorrere la nostra attività di ricezione, aggiungendo scene, stavolta visibili, al film già cominciato e precedentemente fruito attraverso l’udito. Sulla tela scivolano verso il fondo dodici quadri realizzati dal pittore Pierluca Cetera, fedele negli anni a Opera. Un ciclo sull’Apocalisse, che le note registiche ci ricordano «vuol dire rivelare, togliere un velo» e che possiede come tema principe l’elemento dell’acqua, protagonista di ciascun momento pittorico: la pioggia fitta sugli ombrelli di due coppie (il cui suono registrato accompagna lo scorrere delle tele), due donne di mezza età in costume, una vasca da bagno, un’alluvione che ha sommerso i campi costringendo il bestiame a salire su un’automobile, un girotondo di corpi nudi (ricorda La Danza di Henri Matisse), una sorta di giudizio universale in cui stanno sospesi tre uomini e una donna.
Tutto non è come sembra. Il videocompositing rende in divenire ciascuna immagine raffigurata sulla tela: a seconda di come venga bagnata dalla luce lascia scorgere diverse sfumature. Trasparenze e ombre ridefiniscono così i colori e mutano le espressioni dei soggetti, far passare il tempo su di essi li rende dapprima presente e poi passato. Si sommano dimensioni e rompono, amplificandola, sia la bidimensionalità dei quadri in successione che la percezione di coloro i quali stanno osservando. Parallelamente al fluire delle immagini sulla tela/pellicola, si procede per livelli di svelamento ricettivo, cognitivo e narrativo.
«guarda i miei seni stanno rientrando — non ho più peli — guarda i buchi del corpo si rimarginano — non ho più fessure-aperture — la pelle si assottiglia, le ossa si fanno esili — guarda ora il mio corpo scompare — adesso non potete più vedermi».
Silenzio. Si torna all’origine. L’acqua è simbolo tanto di nascita che di morte, è il panta rei dell’esistenza. È ritorno. È avvio. Muore per rinascere, finisce per iniziare. Il calore vulnerabile della lampadina risale di intensità. L’indizio di una guida ci informa: «Adesso il teatro è dentro di noi e la nostra mente è una camera oscura che lascia emergere altre immagini».
Lucia Medri
Teatri di Vetro – settembre 2016
Film – Macchina della vista e dell’udito
cura della visione, videocompositing e regia Vincenzo Schino
opera pittorica Pierluca Cetera
azione vocale Catia Gatelli
testo Florinda Fusco
sound design Federico Ortica
direzione e progettazione tecnica Emiliano Austeri
supervisione video, compositing Grazia Genovese e Paul Harden / Ackagi
automazione e sincronizzazione Andrea Belloni/ Hacklab
progettazione meccanica Benigno Riso/ Hacklab
aiuto regia, organizzazione e cura Marta Bichisao
amministrazione Marco Betti
produzione Fontemaggiore Teatro
con il sostegno di TerniFestival, Nanaproject
residenze artistiche Indisciplinarte, Associazione Demetra/Centro di Palmetta, Corsia OFF, Armunia