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HomeArticoliTeatrosofia #47. Cicerone alla ricerca del perfetto oratore (mediante l'attore).

Teatrosofia #47. Cicerone alla ricerca del perfetto oratore (mediante l’attore).

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 47 presentiamo la ricerca del perfetto oratore attraverso gli strumenti dell’arte attoriale secondo Cicerone

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottore di ricerca in studi umanistici all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

Cicerone in senato legge le Catilinarie Cesare Maccari, 1888
Cicerone in senato legge le Catilinarie Cesare Maccari, 1888

Una tensione insopprimibile dell’essere umano è quella di elaborare ideali di perfezione. In obbedienza a questo bisogno inconscio, Cicerone delineò a sua volta il paradigma dell’oratore perfetto, attraverso i tre libri del dialogo Sull’oratore e il trattatello Oratore. Questi trattati individuano la definizione di una simile figura ideale nel retore che riesce sempre a vincere le cause e a giovare allo Stato, riuscendo a dilettare, istruire e commuovere l’uditorio. Poiché è per sé inarrivabile, il modello viene considerato dello scrittore non tanto un fine, quanto piuttosto un mezzo per diventare un retore più valente, efficace ed eloquente.

Esporre in poche righe quello che Cicerone elabora in ben quattro libri è naturalmente cosa futile. Ci si limiterà pertanto a mostrare come alcune qualità della figura ideale del perfetto oratore siano ricavate attraverso un confronto con gli attori.

Il principale merito riconosciuto all’arte attoriale è quello di far capire che il discorso perfetto è quello che, per così dire, viene pronunciato con perfetta naturalezza. Gli attori potrebbero essere maestri nella capacità di recitare poesia in modo spontaneo e conveniente. Più precisamente, essi sanno, da un lato, adattare il gesto, il tono e il portamento in base al ruolo interpretato al momento, dall’altro pronunciare i loro versi “vivendo” la passione che stanno rappresentando sulla scena. Ad esempio, quando l’attore mostra che, se si vuole far arrabbiare il pubblico mentre si interpreta Medea che uccide i suoi figli per vendicarsi di Giasone, occorre assumere la postura, la voce e i gesti di un individuo adirato, essendo a propria volta affetti da ira – teoria che, come ammette lo stesso Cicerone, ha i suoi chiari prodromi in Democrito e in Platone (in particolare, nello Ione platonico). Tale è insomma il cuore del confronto. Come l’attore sa persuadere l’uditorio ad applaudire e a partecipare emotivamente alle azioni del personaggio che interpreta, così il perfetto oratore è colui che sa indurre il pubblico ad approvare la sua causa e a provare le sue stesse emozioni (come provare sdegno e odio verso un traditore dello Stato che l’oratore stesso avverte), convincendoli con la propria arte retorica.

Un altro confronto positivo con l’arte attoriale è usato nelle argomentazioni che tendono a mostrare come il retore perfetto sia versato in discipline diverse dall’oratoria e capace di avvalersi dei registri espressivi più disparati. Infatti, poiché gli attori riescono bene nella recitazione perché praticano ginnastica, danza e altre utili attività, nonché sanno praticare sia il registro comico che quello tragico e passare dall’uno all’altro a seconda dei casi, a maggior ragione il perfetto oratore dovrà avere queste qualità. Egli reciterà perciò discorsi perfetti, perché: 1) avrà studiato filosofia, storia, diritto e altre discipline che possono di volta in volta tornare utili a portare avanti la propria causa, 2) conoscerà tutti i registri espressivi, capendo quale sia il migliore da usare a seconda del tipo di processo che affronterà, e all’occorrenza saprà anche mescolarli insieme, come l’oratore Cesare Strabone.

I richiami esaminati finora sono positivi. Ma poiché conosciamo ormai il disprezzo conclamato di Cicerone verso l’arte attoriale, non è sorprendente constatare che il confronto con essa si traduce anche in termini negativi. Ciò che l’oratore non deve imitare degli attori, se vuole avvicinarsi quanto più possibile alla perfezione, è soprattutto il loro uso esagerato e «frivolo» di porgere la parola e il gesto. Inoltre, egli deve distinguersi da loro nel recitare anche con il volto, che allora gli attori tenevano invece coperto, sfruttando così anche lo sguardo come mezzo di persuasione e commozione. Infine, il perfetto oratore non deve praticare la recitazione come qualcosa di totalizzante, ma coltivarla quanto basta per raggiungere i propri scopi. Egli ha del resto cose ben più importanti a cui pensare, come proteggere lo Stato dai suoi nemici ed essere un cittadino onesto.

Soprattutto, però, chi vuole avvicinarsi all’ideale del perfetto oratore ha bisogno di comprendere un punto fondamentale. Se gli attori sono semplici «imitatori della vita reale», ossia persone che rispecchiano i casi dell’esistenza, i retori sono «attori della vita reale», cioè probabilmente individui che agiscono nel teatro della vita e ne condizionano in meglio l’andamento. Roscio può certo dar piacere imitando ottimamente un uomo che patisce pena ingiustamente, ma solo l’oratore è in grado di prevenire, difendere o vendicare l’ingiustizia che spesso si abbatte spesso sugli uomini onesti. Il primo opera solo nella finzione estetica, il secondo nella buona e retta vita etica.

L’esito della ricerca di Cicerone potrebbe in conclusione essere sintetizzato così. Per lui, il perfetto oratore è un attore depurato però da tutti i vizi che si riscontrano sulla scena e che ha raggiunto il culmine dell’arte del dire, che non si dà affatto in teatro. All’attore teatrale manca in fondo perlomeno la capacità davvero essenziale per un discorso improntato a perfezione: correggere e domare la realtà esterna ostile, attraverso emozioni e parole ben scelte.

 Enrico Piergiacomi

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Ma perché noi discutiamo del perfetto oratore, dobbiamo creare col nostro discorso una figura di oratore immune da qualunque difetto e adorna di ogni pregio. Infatti, se il gran numero di processi, la diversità delle cause e questa barbara moltitudine che affolla i tribunali hanno aperto la via ai più scadenti oratori, noi non dobbiamo per questo perdere di vista l’oggetto delle nostre ricerche. Guardiamo con quanto scrupolo, e direi quasi con quanta severità, gli uomini esprimono un giudizio in quelle attività, in cui non si cerca un vantaggio immediato, ma un libero godimento dello spirito. Infatti in teatro non vi sono né liti né processi, tali da costringere gli attori a sopportare i cattivi attori, come nel foro sopportiamo i cattivi oratori (Cicerone, Sull’oratore, libro I, cap. 26, § 118)

Passiamo ora al modo di regolare ed esercitare la voce, il respiro, l’intero corpo e la stessa lingua: qui non si tratta tanto di norme teoriche, quanto di addestramento. In tutto questo bisogna badare con diligenza a ciò: chi vogliamo imitare e a chi vogliamo somigliare. Dobbiamo osservare attentamente non solo gli oratori, ma anche gli attori, affinché, per qualche cattiva abitudine non cadiamo in qualche errore o difetto (Cicerone, Sull’oratore, libro I, cap. 33, § 156)

Non è possibile che colui che ascolta provi dolore, odio, invidia, timore e che sia indotto al pianto e alla pietà, se questi sentimenti, che l’oratore vuole suscitare nel cuore del giudice, non saranno impressi profondamente nel suo cuore. Se poi il dolore dell’oratore dovesse essere fittizio, e se in un discorso di questo genere non ci fosse ombra di schiettezza e di sincerità, allora noi dovremmo andare in cerca di un’arte ben più grande. Ora, io non so che cosa càpiti a te, o Crasso, e che cosa agli altri. In quanto a me – e veramente non ho alcun motivo di mentire alla presenza di uomini tanto saggi e a me cari – vi assicuro che io non ho mai cercato di suscitare nei giudici, col mio discorso, sentimenti di dolore o di pietà o di invidia o di odio, senza essere io stesso pervaso, nell’atto di voler commuovere i giudici, da quegli stessi sentimenti che volevo infondere in loro. Non è facile ottenere che il giudice si adiri contro chi tu vuoi, se tu ti mostri freddo nei riguardi della causa: né che egli odi chi tu vuoi, se non avrà visto prima te stesso infiammato di odio; né che sia indotto alla pietà, se non gli avrai mostrato chiaramente il tuo dolore con le parole, i pensieri, la voce, il volto, e perfino le lagrime. Infatti, come non c’è materia tanto infiammabile, che possa accendersi senza fuoco, così non c’è animo tanto disposto ad accertare le tesi dell’oratore, che possa infiammarsi, se l’oratore non si è accostato ad esso infiammato ed acceso. Perché non sembri cosa incredibile e strana che un uomo si abbandoni tante volte all’ira, al dolore e alla più violenta passione, soprattutto in relazione a fatti che non lo riguardano, si tenga presente che grande è la forza di quelle idee e di quegli argomenti che l’oratore tratta e sviluppa nel suo discorso. Egli non ha alcun bisogno di mentire né d’ingannare: infatti la natura stessa del discorso, che viene fatto per commuovere gli animi degli altri, commuove l’oratore ancor più di coloro che ascoltano. (…) Dico, dunque, che un simile fatto non ci deve fare meraviglia. Che cosa, infatti, ci può essere di più fittizio della poesia, del palcoscenico, del componimento drammatico? Eppure io stesso ho visto in simili occasioni gli occhi dell’attore brillare attraverso la maschera, mentre recitava quei famosi versi: “Hai osato tenerlo lontano da te e tornare a Salamina senza di lui? / E non hai avuto paura della vista del padre?”. Tutte le volte che pronunziava la parola “vista”, a me sembrava di vedere Telamone stesso irato e infuriato per la morte del figlio. Quando invece lo stesso attore con voce lamentevole recitava quei versi “Hai lacerato il cuore di un vecchio senza figli, lo hai privato / della prole, lo hai distrutto: non ti sei curato / né della morte del fratello, né del suo piccolo figlio / che era stato affidato alla tua tutela” mi sembrava proprio che piangesse. Ora, se quell’attore, che pure recitava quei versi ogni giorno, non riusciva a recitarli senza commuoversi, come potete pensare che Pacuvio li abbia scritti con cuore calmo e sereno? Spesso ho sentito dire – e sta scritto, come dicono, in Democrito e Platone – che non vi può essere un vero poeta, il cui animo non sia acceso e pervaso, per dir così, dalla fiamma del furore. Come potete quindi pensare che io che, quando parlo, sono ben lontano dal rappresentare ed esprimere lontani eventi o lutti immaginari di mitici eroi e che non interpreto un personaggio, ma sostengo una parte che m’interessa direttamente, potessi battermi perché Manio Aquilio non fosse condannato all’esilio e potessi fare, nella perorazione di quella causa, tutto quello che feci, senza sentire un vero dolore? (Cicerone, Sull’oratore, libro II, capp. 45-47, §§ 189-194)

Indubbiamente in ogni cosa la natura supera l’arte. Se nel modo di porgere la natura fosse abbastanza efficace coi soli suoi mezzi, noi certo non avremmo bisogno dell’arte; ma siccome la passione, che deve essere espressa o imitata soprattutto per mezzo dei gesti, spesso è così confusa da restare velata e quasi annientata, bisogna eliminare tutto ciò che la offusca e accogliere ciò che risulta evidente e manifesto. Ogni passione ha dalla natura un suo volto, una sua voce e un suo gesto; tutto il corpo dell’uomo, ogni aspetto del volto, ogni tono della voce, corrispondono in pieno all’eccitazione della passione, proprio come avviene delle corde della cetra. Infatti i vari toni sono come corde tese, che emettono un suono in corrispondenza del tutto: acuto e grave, veloce e lento, forte e debole; tra tutti questi, per ogni specie, c’è il tono intermedio. Da questi toni derivano quegli altri numerosi toni come il dolce e l’aspro, il pizzicato e il legato, il tenuto e lo staccato, il tono smorzato e quello a scatti, il tono decrescente e quello crescente per la varia modulazione della voce. Non c’è nessuno tra questi toni che non sia regolato dalle regole d’arte. Essi sono a disposizione dell’oratore, che se ne serve per variare il discorso, così come fa il pittore coi colori (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 57, §§ 215-217)

In ogni questione bisogna tenere ben presente il limite; e quantunque ogni cosa abbia la sua misura, tuttavia offende più il troppo che il troppo poco: a questo proposito Apelle soleva dire che errano anche quei pittori ai quali manca il senso della misura. È un argomento questo importante o Bruto – tu ne sei convinto –, che richiederebbe un altro ponderoso volume; ma ai nostri fini può bastare ciò che dirò. Quando diciamo che una cosa conviene – il che càpita sempre a proposito di ogni parola o fatto, sia di scarsissimo sia di massimo rilievo –, quando, ripeto, diciamo che una cosa conviene e un’altra non conviene, e quanto ciò sia importante è sempre evidente, ed ha un fondamento diverso ed è tutt’altra cosa dire “ciò conviene” o “ciò è necessario” – infatti l’espressione “è necessario” indica il concetto assoluto del dovere, che deve essere osservato sempre e da tutti, l’espressione “conviene” invece un concetto, per dir così, di adattamento, relativo alle circostanze e agli individui: il che assai spesso vale e per i fatti e per le parole e per le espressioni del volto e per i gesti e per il modo di camminare, e la stessa cosa al contrario si può dire per l’espressione “non conviene” –; ora, se il poeta evita la sconvenienza come il più grande difetto, il poeta che erra anche quando attribuisce a un uomo cattivo il discorso di un uomo dabbene e a uno sciocco il discorso di un saggio; se infine quel famoso pittore si accorse che nel quadro del sacrificio di Ifigenia, avendo rappresentato Calcante triste, Ulisse ancora più triste e Menelao piangente, doveva necessariamente rappresentare velato il capo di Agamennone, perché il pennello non avrebbe mai potuto esprimere quell’immenso dolore; se, per concludere, l’attore bada alla convenienza, cosa penseremo debba fare l’oratore? Poiché la cosa è tanto importante, lasciamo che l’oratore stesso decida in che modo comportarsi nelle cause e, per dir così, nelle singole membra di esse: certo è ormai chiaro questo, che non solo le parti singole di un discorso, ma anche le cause intere debbono essere trattate ora con uno stile ora con un altro (Oratore, cap. 22, §§ 73-74)

Perciò vi autorizzo a deridere e a disprezzare tutta questa gente che è convinta di avere acquistato la piena padronanza dell’eloquenza, attraverso i precetti che ha appreso da coloro che oggi vengono chiamati “retori”, e ancora non sa quale parte essa rappresenti nella vita e che genere di arte professi. In verità l’oratore deve indagare, ascoltare, leggere, discutere, trattare, esaminare tutto ciò che ha attinenza alla vita degli uomini; perché di una tale vita l’oratore si interessa e da essa derivano gli argomenti sui quali egli s’intrattiene (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 14, § 54)

Io vorrei, o Catulo, che tu ti persuadessi innanzi tutto di questo, che io parlo dell’oratore come se parlassi di un attore. Io potrei affermare che un attore è scadente nell’arte del gestire, se ignora la ginnastica e la danza: per dire ciò, non sarebbe necessario che io fossi un attore; basterebbe che sapessi giudicare con intelligenza le altrui professioni (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 22, § 83)

Sia innanzi tutto fermo questo principio, che sarà meglio chiarito più avanti, che senza filosofia non si può avere quell’oratore che noi ricerchiamo: non nel senso che tutto dipenda dalla filosofia, ma nel senso che essa possa giovargli, come avviene della palestra per l’attore (spesso infatti le piccole cose si possono paragonare molto opportunamente alle grandi) (Oratore, cap. 4, § 14)

Abbiamo visto attori insuperabili nel loro genere, rappresentare abbastanza bene parti assai diverse, pur restando ciascuno nel suo campo; e abbiamo anche visto l’attore comico recitare benissimo in una tragedia e l’attore tragico in una commedia. Ed io non dovrei sforzarmi [a trattare le cause nei più diversi stili]? (Oratore, cap. 31, § 109)

 

E che dire di questo nostro Cesare [Strabone]? Non ha egli creato, potremmo dire, un nuovo tipo di eloquenza e non ha introdotto un modo di parlare che si potrebbe considerare tutto suo speciale? Chi ha mai saputo, se non lui, parlare di avvenimenti tragici con un linguaggio quasi da commedia, di avvenimenti tristi con tono dimesso, di questioni severe con ilarità? Non è stato il solo che ha usato nelle cause del foro un garbo quasi da attore? (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 8, § 30)

 

C’è bisogno che mi dilunghi perfino sul modo di porgere? Esso deve essere regolato sul movimento del corpo, sui gesti, sul volto, sul timbro e sulla modulazione della voce; e quanto valga per questo solo mezzo, considerato in sé e per sé, si può dedurre dalla scena e dalla frivola arte degli attori, dei quali ben pochi abbiamo visto e vediamo recitare con vera soddisfazione, benché tutti si sforzino nel regolare sia la pronuncia che la voce e i movimenti della persona (Cicerone, Sull’oratore, libro I, cap. 5, § 18)

 

Di parole sono fatti i versi, di parole i ritmi disuguali; di parole è fatta anche questa nostra prosa, che può avere ritmi vari e generi diversi. Infatti non vi sono determinate parole per il discorso familiare e altre per il discorso solenne, né ricorriamo a parole di un dato genere per il linguaggio di tutti i giorni e ad altre per il pomposo linguaggio del teatro: noi le attingiamo dal fondo comune dove stanno a disposizione di chi le vuole e, come se si trattasse di mollissima cera, le adattiamo e le plasmiamo secondo il nostro capriccio. Pertanto, il nostro stile è ora solenne, ora semplice, ora medio, e il genere del discorso si adatta al pensiero che noi vogliamo esprimere, variando a seconda dei vari piaceri delle orecchie e impulsi del cuore che vuole suscitare (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 45, § 177)

 

Se tu mi chiedi, o Catulo, che cosa io pensi di questi studi, ti rispondo che un uomo di talento e che mira al foro, al Senato, ai tribunali e alla vita politica, non ha bisogno di dedicare ad essi tutto quel tempo che vi dedicarono coloro che passarono l’intera vita sui libri. Una cosa infatti è coltivare le arti in vista di uno scopo pratico e un’altra coltivarle per puro diletto, con la mente rivolta soltanto ad esse. (…) Valerio cantava ogni giorno; infatti era un attore: che altro avrebbe potuto fare? Invece il nostro amico Numerio Furio canta quando gli fa piacere; egli è un padre di famiglia e un cavaliere romano: da ragazzo apprese ciò che doveva apprendere (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 23, §§ 86-87)

 

Tutti questi sentimenti poi debbono essere accompagnati dal gesto, che non deve essere scenico, cioè tendente ad esprimere le singole parole, ma deve illustrare tutta la materia e il pensiero non per mezzo di una rappresentazione mimica, ma solo accennando e con un forte e deciso movimento della persona, ad imitazione non degli attori, che si esibiscono sulla scena, ma di coloro che si addestrano al maneggio delle armi e degli atleti. La mano deve essere meno espressiva, accompagnando con le dita le parole, ma senza volere esprimere il pensiero; il braccio teso avanti liberamente come se fosse un dardo nel discorso; nei passi concitati all’inizio o alla fine si batterà forte il piede. Ma la forza maggiore è nel viso, e nel viso il primo posto spetta agli occhi. Per questo agivano meglio i nostri antenati, che non erano entusiasti di un attore mascherato, fosse pure Roscio. I gesti infatti sono l’espressione dell’animo; specchio dell’animo è il volto e gli occhi ne sono gli interpreti: infatti questa è la sola parte del corpo che possa esprimere tanti atteggiamenti diversi quanti sono i sentimenti dell’animo; e in verità non c’è nessuno che possa esprimere i medesimi sentimenti con gli occhi chiusi. Teofrasto ci tramanda che un certo attore Tauriso soleva parlare con le spalle rivolte al pubblico, perché nella rappresentazione recitava tenendo fisso lo sguardo su un punto (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 59, §§ 220-221)

 

Il suo modo di porgere sarà non troppo appassionato, né teatrale, caratterizzato da un moderato movimento della persona; il volto sarà molto espressivo, non però tale da fare, come si dice, le smorfie, ma che sappia esprimere con naturalezza il senso di ciascuna frase (Oratore, cap. 25, § 86)

 

Mi sono dilungato su quest’argomento più del giusto, perché gli oratori, che sono gli attori della vita reale, ormai lo hanno abbandonato e se ne sono impossessati gli attori, che sono gli imitatori della vita reale (Cicerone, Sull’oratore, libro III, cap. 56, § 214)

 

Quale canto puoi trovare più dolce di un armonioso discorso? Quale carme più tornito di un periodo ben congegnato? Quale attore è più piacevole, nell’imitare un caso reale, di quanto lo sia un oratore nel difenderlo? Che cosa c’è di più spiritoso di una fitta serie di arguti pensieri? Che cosa c’è di più ammirevole di un argomento esposto con uno splendido linguaggio? Che cosa di più completo di un discorso ricolmo dei più svariati concetti? In verità non c’è argomento degno di essere trattato con eleganza e solennità, che non rientri nella competenza dell’oratore (Cicerone, Sull’oratore, libro II, cap. 8, § 34)

 

Ma ormai è tempo di delineare la figura del nostro oratore ideale e le caratteristiche della perfetta eloquenza. La sua grandezza dipende principalmente dal linguaggio: tutti gli altri pregi rimangono in ombra. Ciò risulta dal suo stesso nome: infatti colui che possiede tutte le doti oratorie viene chiamato, dal termine eloquor in latino «eloquente» e in greco ῥήτωρ, e non «inventore» o «compositore» o «attore»: e mentre di tutte le altre doti possedute dall’oratore ciascuno può rivendicare a sé una parte, la potenza del dire, cioè dell’eloquenza, viene attribuita solo all’oratore (Oratore, cap. 19, § 61)

 

[Tutti i passi qui richiamati sono tratti da Giuseppe Norcio (a cura di), Cicerone: Opere retoriche. Volume primo: De oratore, Brutus, Orator, Torino, UTET, 2000]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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