A Terni Festival va in scena La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo (dramma di pensiero in tre atti), l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro. Recensione
È un po’ come quando ci si ritrova a passare dalle parti di una conversazione iniziata da anni e intrisa di emozioni vivide e condivise. Ci si ferma e ci si pone in ascolto e, quando si è invitati a partecipare al dialogo congiunto con le proprie idee, si avverte nel profondo uno spiccato senso di responsabilità.
Sensibilmente e per trasmissione, ci si avvicina così alla materia viva della drammaturgia in fieri di Lucia Calamaro che dai primi anni duemila muta evolvendosi in forme intime e personali – Tumore. Uno spettacolo desolato, Autobiografia della vergogna. Magick, L’origine del mondo. Ritratto di un interno, fino all’ultimo Diario del tempo. Prima di tutto – a dispetto di tutto – ci si trova al cospetto di strutture linguistiche e letterarie (si legga a proposito un attento articolo apparso quest’estate su Internazionale) dedicate all’introspezione, che utilizzano come filtro l’autoriale percezione della realtà: ritratti, diari, autobiografia, strumenti magmatici e in parte effimeri ma che tuttavia, grazie a una scrittura puntuale e attenta al dettaglio, volta a fermare, ordinandolo graficamente, il caos dei pensieri, si trasformano e offrono il campo d’indagine privato in cui rintracciare concetti universali.
La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo (dramma di pensiero in tre atti) ha debuttato nel mese di luglio al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, per iniziare poi una lunga tournée che la vedrà approdare al Teatro di Roma nel mese di maggio. Due serate nelle quali accogliere, come un’attesa, l’ultimo lavoro della drammaturga romana al Terni Festival, iniziato la scorsa settimana e in corso fino al 25 settembre.
Lucia Calamaro sembra essere giunta ad affrontare in maniera diretta il dramma che ha tacitamente accompagnato la scrittura dei suoi lavori precedenti: la morte giunge a palesarsi nell’elaborazione del lutto, in quel momento che non precede, non segue, ma contemporaneamente vive dell’assenza. Quando la vita (si) ferma. Tre atti di pensiero, divisi tra loro da pause di quindici minuti, nei quali il tempo scivola, corre, si intromette, allunga distanze e rende il presente già ricordo. E in questa discesa, come di una biglia su un piano inclinato che cede manchevolmente al senso di gravità incontrando il vuoto, ritroviamo la paranoia della parola, atto linguistico che afferma la presenza, a cercare di aggrapparsi morbosamente proprio a quella vita, che non c’è più.
Toccando lievi e giocose vertigini di ironia, Riccardo (Goretti), Simona (Senzacqua) e Alice (Redini), personaggi di nome e attori di fatto, costituiscono un triangolare lessico familiare che intenta nuove modalità di mantenere in vita il ricordo di lei, Simona, la madre, con l’impeccabile qualità di interpreti capaci di sobbarcarsi il peso di un testo denso di pensiero. Nel primo atto, scatoloni bianchi con la scritta “fragile” bene in vista riempiono la scena alta, piena d’aria e di spazio, nella quale i corpi dei protagonisti sembrano tanto piccoli quanto già separati da grandi e visibili distanze. Vi è in corso un trasloco, la materia delle cose incontra l’immateriale di una presenza: lo spettro, non dichiarato, di Simona si aggira per la casa e non vuole lasciare e lasciarsi, per questo si attacca a un antico portalampada e impedisce al marito di buttare i suoi libri e vestiti, implorandogli di stringerla nel ricordo. «Mi chiedevo quanto tempo? No volevo dire quanto ci vuole? Ecco rispetto a come sei fatto tu… o meglio a come è fatta una persona, la sua memoria… ehm… insomma… Riccardo, ma tu mi dimenticherai?» Egoismo assurdo, un po’ naif che ingenuamente invade la vita del marito, quella che si muove, alla quale la defunta in carne e ossa e pensiero si ostina ancora di voler appartenere: «Ti chiedo solo lasciami un attimo per capire» dirà Riccardo a Simona.
Al centro della narrazione, in un secondo atto che oscilla tra la vita illuminata dal sole e il suo lento sbriciolarsi in una fredda sala d’attesa di uno studio medico (dottori, medici, sono un elemento ricorrente dei suoi testi), giunge la dura rivelazione del padre alla figlia. Il teatro allora buca la letteratura, la drammaturgia testuale cede il posto a quella corporea; stavolta è il silenzio di una sospensione a parlare. Il macabro annullamento del corpo che cede alla terra apre invece l’atto conclusivo ma non è quella morte a interessare Calamaro, quanto il ricordo che segue tramutandosi in un’opportunità mancata, una promessa disattesa, distratta e confusa, stordita dal troppo dolore. Pieghe dell’animo (come le silhouette in scena cartonate e ripiegate di plurimi colori) che possiedono diversi modi di resistere a quando qualcuno non c’è più.
Abbiamo di fronte una scrittura magniloquente, forse davvero ancora orfana di un riconoscimento editoriale, forse davvero ancora vittima di un confine che nel nostro paese facciamo fatica ad annullare. Testo, teatrale, che scenicamente assume accenti un po’ estenuanti (come alcune ridondanti ripetizioni relative alle psicosi di Simona) o forzati coinvolgimenti degli spettatori che, in riferimento alla scrittura egocentrica e centripeta, potrebbero sentirsi ospiti imbarazzati di un racconto solo osservabile da fuori. Quella relazione ricercata e auspicata non sembra infatti essere supportata da una scrittura in grado di abbracciare lo spettatore teatralmente, essa rimane invece sulla carta e piuttosto che viversi sembra leggersi. «La sua gestazione ha avuto in me i tempi faticosi della rivelazione lenta e sommersa, abbordando quel dramma che il pensiero non sa, non vuole, non può gestire», questa fatica psicologica e personale espressa dall’autrice viene traslata nello sforzo che sembra fare il teatro per infilarsi in una scrittura dannatamente fedele a se stessa, ai suoi schemi e al doloroso pensiero autoriale.
Lucia Medri
Terni Festival – settembre 2016
Scritto e diretto da Lucia Calamaro
Con Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua
assistenza alla regia Camilla Brison e Giorgina Pilozzi
disegno luci Loic Hamelin
scene e costumi Lucia Calamaro
contributi pitturali Marina Haas
accompagnamento e distribuzione internazionale Francesca Corona
una produzione SardegnaTeatro, Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Teatro di Roma, Odéon – Théâtre de l’Europe, La Chartreuse – Centre national des écritures du spectacle
e il sostegno di Angelo Mai e PAV