Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 44 continuiamo a parlare di Cicerone che per descrivere il comportamento decoroso di un cittadino, si ispira all’arte dell’attore.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottore di ricerca in studi umanistici all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Pur nel suo disprezzo dichiarato e conclamato dell’arte della recitazione, Cicerone si situa sul solco della tradizione filosofica antecedente, di marca soprattutto cinico-stoica, quando impiega la metafora dell’attore per descrivere le responsabilità che l’essere umano saggio deve assolvere verso la comunità. Tre sono le opere in cui tale concezione emerge con particolare nettezza: Sui paradossi degli Stoici, Sui doveri, Sulla vecchiaia.
La prima è una raccolta di esibizioni retoriche. Esse intendono colpire e al tempo stesso edificare l’ascoltatore attraverso l’esposizione di alcune tesi stoiche, a prima vista assurde e avverse al buon senso. Tra queste, vi è il paradosso che tutti gli errori si equivalgono, quindi che l’agente morale virtuoso non sbaglia mai e che colui che si macchia di una colpa piccola (es., desiderare solo nel pensiero di commettere adulterio) è parimenti vizioso a chi commette una grande atrocità (es., mangiare il proprio padre e violentare la propria figlia). Cicerone volgarizza questa prospettiva stoica usando un ragionamento analogico, ripreso dalla recitazione. Poiché noi vediamo che l’attore viene impietosamente fischiato, al minimo sbaglio nella pronuncia di una sillaba, perché ci si attende che la sua arte non mostri mai cenni di sciatteria o cedimento, a maggior ragione si deve pretendere la stessa irreprensibilità e la medesima eccellenza prestazionale nel cittadino. La vita di quest’ultimo è peraltro molto più importante degli spettacoli di un saltimbanco, mentre le colpe commesse nella vita associata risultano assai più pericolose di quelle commesse sulla scena. Del resto, il commettere un errore anche minimo è segno di una facoltà razionale distorta, dunque un potenziale preludio a errori di gran lunga peggiori e insidiosi.
L’opera in tre libri dei Sui doveri presenta invece una prospettiva più complessa, che stavolta sembra attingere di più ai testi originali degli Stoici, in particolare a Panezio. È vero che anche qui ritornano accenti di disprezzo verso gli attori, precisamente laddove Cicerone e i filosofi a cui attinge condannano di nuovo l’arte della recitazione, oppure laddove negano che l’organizzazione di pubblici spettacoli o la costruzione di nuovi teatri sia un beneficio per la comunità. Nondimeno, il libro I presenta anche un’originale riflessione sul “decoro”, definito in generale come il vivere conformemente alla natura umana e nello specifico come la congruenza dell’agire con le proprie propensioni caratteriali. Ed entrambe le definizioni sono dimostrate come vere, mediante un raffronto con gli attori e/o metafore tratte dalla recitazione.
La concezione specifica del decoro è difesa attraverso un confronto col teatro tragico. I poeti che si dedicano a questo genere mostrano che è “decoroso” che un personaggio come Atreo uccida i figli di Tieste, faccia mangiare le loro carcasse al padre e si glori dell’operato, perché ciò è coerente col suo carattere sanguinario e subdolo. Di contro, la concezione generale del decoro è sostenuta prima dichiarando che la natura ha assegnato a noi esseri virtuosi le “parti” della coerenza morale e della virtù, che bisogna cercare di recitare al meglio per non perdere la propria umanità e assimilarsi alle bestie, poi attaccando i Cinici e gli Stoici tendenti al Cinismo. Costoro dicono che certe azioni dette “indecorose” perché avverse al senso del pudore – come far sesso in pubblico – sono invece legittime a compiersi sotto lo sguardo di tutti, perché naturali e portatrici di beni, come la generazione della prole. L’obiezione di Cicerone consiste nell’opporre che la natura ha in realtà voluto che le pudenda del corpo fossero sottratte alla vista. Dunque, essa ci mostra che è decoroso nasconderle e non usarle per fornicare apertamente: e persino la gentaglia degli attori ce lo conferma, salendo sul palco totalmente coperti. (Oggi questo argomento di Cicerone chiaramente non funziona più, data la continua presenza del nudo in scena. Un filosofo cinico contemporaneo potrebbe perciò rovesciare l’argomentazione dicendo che è invece proprio la condotta degli attori sulla scena a dimostrare che non è indecoroso o contrario a natura scoprire le pudenda e usarle attivamente in pubblico).
Sembra che tale concezione di Cicerone dia in fondo preminenza al decoro generale, in luogo del decoro specifico. Bisogna sempre rispettare le parti della virtù e della coerenza morale assegnate dalla natura, anche se ciò porta ad andare contro alcune proprie propensioni caratteriali viziose. In questo senso, egli si situa una volta di più in polemica con attori e poeti, da cui pure stavolta dipende. Se quelli possono rappresentare sulla scena del teatro il comportamento di un individuo subdolo e sanguinario, gli individui buoni e saggi non debbono seguire le propensioni caratteriali viziose, perché ciò li renderebbe meno umani. Per essere decorosi sotto la prospettiva universale, occorre essere indecorosi dal rispetto particolare. Il decoro morale passa per il disdoro individuale.
Passando infine allo scritto Sulla vecchiaia, si procederà in modo rapido e semplice. Cicerone ritiene che tra le “parti” assegnate dalla natura vi sia anche quella di recitare conformemente la propria età, o meglio il trascorrere e la fine di un ciclo della vita. Così, laddove egli già istruiva il giovane fratello Quinto a prepararsi a terminare il suo mandato politico con la stessa passione dell’attore che recita l’ultimo atto, ora nel Sulla vecchiaia consiglia alle persone anziane la cui esistenza sta per chiudersi di fare lo stesso. I vecchi che non hanno più voce per recitare un’orazione insegnino agli altri come declamare, mentre quelli che non sono più in grado di godere di alcuni piaceri, li guardino con distacco da lontano, al pari degli spettatori che vedono uno spettacolo vivo e intenso dall’ultima fila. La morte sarà la loro uscita di scena: tentino allora di recitarla al meglio, per finire la vita in bellezza.
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L’attore – allorché sbaglia nel muoversi fuori tempo o se l’enunciazione di un verso risulta erronea perché una sola sillaba è pronunciata o più breve o più lunga – viene fischiato e sbattuto via dalla scena: e tu, nel tuo comportamento quotidiano – che deve risultare più controllato di ogni gesto e più esatto di ogni verso –, riconoscerai di essere andato fuori tempo in una sillaba? Non mi metto ad ascoltare un poeta che recita le sue sciocchezze, e dovrei porgere orecchio, nei nostri rapporti di vita sociale, a un cittadino che computa sulla punta delle dita i suoi errori e si giustifica dicendo: «Se son sembrati più brevi, allora potrebbero apparire meno gravi»? Ma come potrebbero apparire meno gravi dal momento che, ogni volta che si sbaglia, si sbaglia perché la ragione e l’ordine vengono sconvolti e, una volta che ciò avviene, non si può aggiungere nulla che consenta di dar l’impressione che sia possibile compiere un’azione maggiormente colpevole? (Cicerone, Sui paradossi degli Stoici, secondo paradosso, cap. 2, § 26)
In questo momento e in questa questione, adunque, io seguo principalmente gli Stoici, non già come semplice espositore, ma, secondo il mio costume, attingendo da essi, come da fonti, con piena e intera libertà di giudizio, quanto e come mi parrà opportuno (Cicerone, Sui doveri, libro I, cap. 1, § 6)
Parliamo, infine, delle professioni e dei guadagni. Quali di essi sono da reputarsi nobili e quali ignobili? Ecco, press’a poco, quanto la tradizione ci insegna. Anzitutto, si disapprovano quei guadagni che incorrono nell’odio della gente, come quelli degli esattori e degli usurai. Ignobili e abietti, poi, sono i guadagni di tutti quei mercenari che vendono non l’opera della mente, ma il lavoro del braccio: in essi la mercede è per se stessa il prezzo del servaggio. Abietti sono da reputarsi anche coloro che acquistano dai grossi mercanti cose da rivender subito al minuto: costoro non farebbero nessun guadagno se non dicessero tante bugie; e il mentire è la più gran turpitudine del mondo. Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bottega. Ancora più in basso sono quei mestieri che servono al piacere: «Pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatori», per dirla con Terenzio; aggiungi pure, se non ti dispiace, i profumieri, i ballerini e tutta la masnada dei mimi e delle mime (Cicerone, Sui doveri, libro I, cap. 42, § 150)
Due sono le specie dei donatori: i prodighi e i liberali. Prodighi son quelli che, con pubblici banchetti, con distribuzioni di carni, con spettacoli di gladiatori e con l’allestimento di rappresentazioni sceniche o di combattimenti di fiere, profondono tesori in cose che lasceranno un breve ricordo, o non ne lasceranno alcuno. Liberali, invece, son quelli che, con le proprie sostanze, o riscattano persone catturate dai predoni, o si accollano i debiti degli amici, o li aiutano nel collocar le figliole, o li sovvengono nell’acquistare o nell’aumentare il loro patrimonio. Mi domando perciò stupito che diamine sia venuto in mente a Teofrasto in quel libro che egli scrisse sulla ricchezza. In questo libro, tra molte cose belle e buone, ce n’è una fuor di proposito: egli si diffonde un po’ troppo nel lodare la sfarzosa magnificenza degli spettacoli popolari, credendo che l’allestimento di così dispendiose feste sia il maggior frutto della ricchezza. Io credo invece che molto più grande e più sicuro il frutto di quella liberalità della quale ho già dato qualche esempio (Cicerone, Sui doveri, libro II, 16.55-56)
Ma ci sono ancora altre spese assai più degne: quelle appunto che si sostengono per opere di pubblica utilità, come le mura, gli arsenali, i porti, gli acquedotti. È ben vero che quello che si dà lì per lì, e quasi alla mano, riesce più gradito; ma queste opere pubbliche ci acquistano maggior favore per l’avvenire. Quanto ai teatri, ai portici, ai templi nuovi, io, per un riguardo a Pompeo, li biasimo con una certa riluttanza; ma è sicuro che i più illustri filosofi non li approvano, come non li approva né il nostro Panezio, che io, in questi libri, ho seguito da vicino, senza però tradurlo, né Demetrio Falèreo, il quale biasima perfino Pericle, il più grande dei Greci, per aver profuso tanto denaro in quei magnifici Propilèi. Ma di tutta questa materia io ho trattato diffusamente nei miei libri sulla Repubblica (Cicerone, Sui doveri, libro II, cap. 17, § 60)
Ora, questa consuetudine di generosità, io l’antepongo di gran lunga all’allestimento dei pubblici spettacoli: quella è propria di uomini autorevoli e grandi, questa invece è propria d’una sorta di adulatori, i quali, con l’esca del piacere, solleticano, per così dire, i bassi istinti del popolo (Cicerone, Sui doveri, libro II, cap. 18, § 63)
Ora, il decoro è di due specie, giacché per decoro intendiamo tanto un carattere generale che risiede in tutto l’onesto, quanto un carattere particolare, a quello subordinato, che appartiene alle singole parti dell’onesto. Del primo si suol dare pressappoco questa definizione: «È decoro ciò che è conforme all’eccellenza dell’uomo, in quanto la sua natura differisce da quella degli altri esseri viventi»; la parte speciale, invece, è definita così: «Decoro è ciò che è conforme alla particolar natura di ciascuno, sempre che in esso apparisca moderazione e temperanza con un certo aspetto di nobiltà». Che tale sia la vera nozione del decoro, noi possiamo argomentarlo da quel decoro al quale tendono i poeti. Di questo speciale decoro si suol parlare diffusamente altrove; qui, io noterò soltanto che esso è rispettato dai poeti quando appunto i singoli personaggi agiscono e parlano in modo conforme al loro proprio carattere. Così, per esempio, se Èaco o Minosse dicessero: «Mi odino, purché mi temano»; oppure: «Ai figliuoli è tomba il corpo del padre», l’espressione parrebbe sconveniente, perché, come sappiamo, quelli furono uomini giusti; ma se lo dice Atreo, scoppiano applausi, perché il suo linguaggio è conforme al suo carattere. Se non che i poeti, dal carattere dei singoli personaggi, comprenderanno quali tratti convengano a ciascuno di essi; noi, invece, dobbiamo conservare quel carattere che appunto la natura ci ha imposto e che, per la sua grande nobiltà, ci innalza sopra tutti gli altri esseri viventi. Perciò i poeti, nella grande varietà dei caratteri, vedranno essi quale condotta e quale linguaggio convengano propriamente anche ai personaggi viziosi; noi, invece, non dobbiamo che osservare la legge della natura; la natura ci assegna le parti della coerenza, della moderazione, della temperanza e della discrezione; e ancora e sempre la natura ci insegna a considerare attentamente (Cicerone, Sui doveri, libro I, capp. 27-28, §§ 96-98)
Ora, questo decoro di cui parliamo e che si manifesta in ogni azione e in ogni parola, e perfino nel muovere e nello stare della persona, è riposto in tre cose, difficili a spiegar bene, ma tali che basta darne un’idea: nella bellezza, nell’ordine e nell’ornamento acconcio all’azione. E in queste tre cose è compreso anche il segreto di piacere a coloro coi quali o presso i quali viviamo. Ebbene, anche di queste cose converrà discorrere brevemente. Prima di tutto è evidente che la natura pose grande studio nella conformazione del nostro corpo: mise in mostra il volto e tutte quelle parti che sono decorose a vederci, mentre celò e nascose quelle che, destinate alle necessità naturali, avrebbero avuto un aspetto brutto e vergognoso. Il pudore dell’uomo secondò questa così diligente costruzione della natura. Invero, quelle parti che la natura nascose, tutti gli uomini sani di mente le sottraggono alla vista, cercando di soddisfare alle necessità naturali nel modo più occulto possibile; e quanto a quelle parti del corpo che servono a certe necessarie funzioni, noi non chiamiamo col loro proprio nome né quelle parti né le funzioni loro: in generale, ciò che non è brutto a farsi, purché si faccia in segreto, è osceno a dirsi. Pertanto, se il far quelle cose apertamente è indizio di spudoratezza, non è certo indizio di pudore il parlarne senza ritegno. E invero non bisogna dar retta ai Cinici, o a quegli Stoici che furono quasi Cinici, i quali ci riprendono e ci deridono perché giudichiamo vergognose a nominarsi certe cose che in realtà non sono turpi, mentre invece chiamiamo coi loro propri nomi altre cose che in realtà sono veramente turpi. Per esempio, il rubare, il frodare, il falsificare, è cosa realmente turpe, ma la si può nominare senza dar nell’osceno; invece il far figlioli, cosa in sé onesta, è osceno chiamarla col suo nome; e parecchi altri argomenti adducono in tal senso gli stessi filosofi contro il così detto pregiudizio del pudore. No, noi dobbiamo prendere per guida la natura ed evitare tutto ciò che può offendere gli orecchi: lo stare e l’andare, il modo di star a tavola, il volto, lo sguardo, il gesto conservino il più dignitoso decoro. In queste cose dobbiamo soprattutto guardarci da due difetti: da una effemminata mollezza e da una scontrosa villania. E invero non si deve ammettere che queste norme, obbligatorie per gl’istrioni e per gli oratori, siano indifferenti per noi. Certo, il costume degli attori comporta, per antica rigidezza morale, un così delicato pudore che nessuno osa presentarsi sulla scena senza mutandine, per timore che, se per qualche accidente certe parti del corpo si scoprono, la loro vista non offenda il decoro. E così, secondo il nostro costume, i figlioli grandi non fanno il bagno insieme col padre, né il genero col suocero. Bisogna, dunque, osservar la pudicizia anche in queste cose, tanto più che la natura stessa ne è maestra e guida (Cicerone, Sui doveri, libro I, cap. 35, §§ 126-129)
Il sistema di vita dei Cinici, però, è da rigettarsi totalmente: esso è nemico della verecondia, senza la quale non c’è rettitudine e non c’è onestà (Cicerone, Sui doveri, libro I, cap. 41, § 148)
Infine, sia di questo ti prego, sia a questo ti esorto a che, come sono soliti fare i poeti valenti e gli attori appassionati, parimenti tu nel finale e al termine della tua carica e della tua attività pubblica ti comporti scrupolosamente al massimo grado, affinché appaia la piena perfezione e il prestigio ragguardevole del terzo anno del tuo governo (Cicerone, Al fratello Quinto, libro I, lettera 1, § 46)
Perciò, se siete soliti ammirare la mia saggezza (che magari fosse degna della vostra stima e del mio cognome), in questo io sono sapiente, che seguo, come ottima guida, la natura, come se fosse un dio, e a lei obbedisco: da lei è impossibile che sia stato trascurato, come farebbe un poeta inetto, l’ultimo atto, mentre le altre parti della vita sono state ben definite (Cicerone, Sulla vecchiaia, cap. 2, § 5)
L’oratore invece ha paura che si infiacchisca con la vecchiaia, perché il suo impegno non dipende solo dall’intelletto, ma anche dai polmoni e dalla loro forza. È pur certo che, non so per qual motivo, quella certa sonorità di voce si sviluppa anche in vecchiaia. Io per certo non ho perduto la mia voce, e voi sapete quanti anni ho! Ma tuttavia è più decoroso che il parlare di un vecchio sia sereno e pacato. L’orazione composta e misurata di un vecchio eloquente si concilia, di per se stessa, l’uditorio. Se poi tu non sei capace di esercitare l’oratoria, puoi tuttavia dare lezione a Scipione e a Lelio! Che c’è infatti di più gradevole di una vecchiaia circondata da giovani desiderosi di imparare? (Cicerone, Sulla vecchiaia, cap. 9, § 28)
Come gode maggiormente della interpretazione di Turpione Ambivio lo spettatore che lo guarda dalla prima fila, e dopo tutto se lo gode anche chi sta nell’ultima fila, così la gioventù guardando da più vicino i piaceri, forse gode di più, ma anche i vecchi, guardandoli da lontano, godono quel tanto che è loro sufficiente (Cicerone, Sulla vecchiaia, cap. 14, § 48)
Quali sono dunque i piaceri del corpo, che possono essere paragonati ai privilegi dell’autorevolezza? Quelli che hanno saputo usufruire splendidamente di queste cose, quelli mi sembra che abbiano saputo recitare fino in fondo la commedia della vita e che non siano caduti, come attori inesperti, all’ultimo atto (Cicerone, Sulla vecchiaia, cap. 18, § 64)
Che se non siamo immortali dopo la morte, certamente è augurabile per l’uomo che si estingua quando è il suo tempo; perché la natura è così fatta, che ha fissato un termine per tutte le altre cose e quindi anche per la vita. La vecchiaia infatti è la conclusione della vita, tale e quale a una commedia, di cui dobbiamo evitare di annoiarci, specialmente se abbiamo raggiunto la sazietà (Cicerone, Sulla vecchiaia, cap. 23, § 85)
[Le traduzioni usate sono le seguenti: 1) Renato Badali (a cura di), Cicerone: I paradossi degli Stoici, Milano, Rizzoli, 2003; 2) Dario Arfelli (a cura di), Cicerone: Dei doveri, Milano, Mondadori, 1994; 3) Carlo Di Spigno (a cura di), Cicerone: Epistole al fratello Quinto e altri epistolari minori, Torino, UTET, 2002; 4) Bartolomeo Rossetti (a cura di), Cicerone: L’arte di saper invecchiare, Roma, Newton Compton, 2012]
Enrico Piergiacomi