Paolo Panaro con questa conversazione apre il proprio lavoro allo sguardo del lettore. Una riflessione per comprendere il ruolo del narratore nel panorama teatrale di oggi. Intervista.
Paolo Panaro è un narratore puro, lo abbiamo incontrato a Chiusi per l’edizione 2016 di OrizzontiFestival. Qui, mescolando varie tecniche, tra le quali quella del cunto, è stato protagonista di VisitAzioni, una serie di racconti in luoghi storici e paesaggistici della città.
Ti abbiamo visto su una piattaforma in mezzo al lago di Chiusi per La Favola de Zoza da Giambattista Basile, nell’underground del Museo Civico con Le mille e una notte e sempre sotto terra, nelle catacombe di S. Mustiola, alle prese con Gerusalemme liberata. Come è nata questa idea delle VisitAzioni a Chiusi?
Negli anni, ho elaborato un modello di spettacolo che si è basato unicamente sulla qualità letteraria del testo proposto e sulla tecnica dell’attore. Ho progressivamente fatto a meno della scenografia, del costume e spesso anche della protezione di un teatro. Sono fisicamente un mediatore fra il pubblico e una storia da raccontare. Questa storia, affinché lo spettacolo riesca, deve lasciare un segno in chi assiste. La scelta di narrare in un luogo piuttosto che in un altro fa dunque parte di una strategia ben precisa. Quando si recita all’aperto o in luoghi non protetti, c’è sempre il rischio che la voce non arrivi, che i rumori esterni abbiano la meglio o che la gente si agiti perché non è comodamente seduta. La distrazione del pubblico è il primo nemico dell’attore. In questi casi cerco di piegare la cornice ambientale a mio vantaggio: la integro nel lavoro.
A Chiusi, per esempio, avrei dovuto recitare su un isolotto galleggiante. Una barca mi avrebbe condotto a destinazione e lì avrei aspettato l’arrivo del pubblico che su piccole barche avrebbe circondato la piccola piattaforma per assistere allo spettacolo. Una processione di barche, al tramonto, in fila per raggiungere qualcuno che al centro di un lago avrebbe loro raccontato qualcosa: ho pensato a una specie di rito religioso. Mi è immediatamente venuto in mente che la struttura dei racconti de Lo cunto dei cunti di Basile era stata modellata sul sistema dello snocciolamento del Rosario: un’ironica cerimonia laica dove i racconti si susseguono come in una preghiera. Il pellegrinaggio in barca avrebbe inconsapevolmente preparato il pubblico a fruire al meglio della liturgia poetica dell’operazione.
Ogni luogo ha, in fin dei conti, la propria chiave.
Mi sembra che la tua recitazione prenda forza dalla prossimità del pubblico, eppure è già una modalità di racconto molto ricca. Quali sono le sensazioni che provi con gli spettatori così vicini e in situazioni non prettamente teatrali?
Il narratore ha tutte le caratteristiche degli altri personaggi teatrali ma, allo stesso tempo, porta in dote al teatro la grande esperienza della letteratura. È un personaggio estremamente interessante: ha, a seconda dello spettacolo, un’età, una voce e una fisicità specifica.
Ogni storia ha un proprio narratore. Fra i vari personaggi che compongono una narrazione egli è il solo a sapere che lì, intorno a lui, c’è il pubblico. È lui che cerca lo sguardo di tutti, ne giudica l’attenzione e si muove di conseguenza, calibrando toni e volumi, gesti e timbri.
Ovviamente dietro il narratore, dietro la maschera del narratore, c’è l’attore, con la sua esperienza. Come attore io ho preso la buona abitudine di sparire dietro a quella maschera. Non ho mai sentito la necessità di mettermi in mostra. Le parole del testo e la storia da narrare sono più interessanti della mia biografia o dei miei pensieri. E così mi limito semplicemente a offrire al personaggio-narratore, vero artefice del tutto, il mio corpo e la mia voce, la mia esperienza e consulenza teatrale.
Chiarito questo, posso dire, come attore, che la distanza fisica dal pubblico è l’elemento che condiziona la performance narrativa. Idealmente, lo spettacolo migliore è quello dove la distanza fra attore e spettatore è ridotta al minimo e la voce dell’interprete si trasforma in un sussurro intimo. Ma quando, come nel caso di Chiusi, devi recitare su un lago e devi farti sentire e vedere anche dal pubblico più distante, perché tutti hanno diritto di sentire e di vedere, ecco che bisogna far ricorso alla tecnica del teatro tradizionale, pratica sul campo trasmessa da attore ad attore, di generazione in generazione, nel corso dei secoli.
Alcuni parlano di te come di un “fine dicitore”, sei un artista della parola e del racconto: come prepari performance come quelle viste a Chiusi?
Ho un repertorio di spettacoli molto vasto, fatto di capolavori e di opere poco frequentate, scritti da autori antichi ma anche contemporanei. Ogni anno aggiungo un nuovo titolo. Al momento ho venticinque opere in repertorio. È facile trovare il titolo giusto a seconda delle situazioni. Si tratta di scegliere in base alla cornice ma anche stabilire la durata della narrazione.
Qual è il limite che senti di non dover oltrepassare? Quando l’estrema cura per i cambi di voce, di tono e di volume rischia di diventare manierismo e quando è invece al servizio del racconto?
Il limite che non vorrei superare è quello che porta al compiacimento virtuosistico fine a se stesso, tentazione tipica di questo mestiere. In genere sono molto vigile e severo con me stesso. Non dimentico mai che in cima ai miei pensieri c’è la necessità di rendere chiaro e comprensibile il racconto.
Ma forse il senso della tua domanda è diverso. Mi stai suggerendo che assistendo alla Gerusalemme o al Cunto o alle Mille e una Notte si può avere la sensazione di un eccesso di recitazione.
È probabile. Può succedere che interpretando testi di questa natura, scritti in un’epoca in cui la vocalità umana era naturale e non alterata dalla tecnologia, l’uso della voce e della gestualità risulti esotica e arcaica. Ma, per fare un esempio, potresti mai chiedere a un cantante lirico di modernizzare un’aria di Rossini rinunciando, per esempio, all’uso del diaframma?
Nello specifico, i titoli proposti a Chiusi hanno in comune di essere nati in un’epoca in cui la trasmissione della cultura avveniva oralmente. Sono opere pensate per essere pronunciate in pubblico ad alta voce. È naturale che mantengano nella loro tessitura una teatralità che abbiamo dimenticato o abbandonato nel corso dei secoli.
Ora, quella specifica teatralità, quel determinato uso della voce e del corpo, possono sembrare una comunicazione di maniera a un pubblico pigro e convenzionale, abituato ai minimalismi televisivi e alla deformazione tecnologica della voce e dell’immagine. Per questo motivo, quando si propone una “modernizzazione scenica” di un testo si cerca spesso di piegare un’opera alle modalità di fruizione del pubblico contemporaneo, di adattarlo agli occhi e alle orecchie contemporanee, di farne insomma un’operazione alla moda.
Il mio lavoro segue caparbiamente la via opposta. Io cerco di convincere il pubblico ad assistere alle mie operazioni con occhi e orecchie diversi da quelli convenzionali; li spingo a riscoprire un modo dimenticato di percepire il teatro e la letteratura. Li invito a cambiare. E così ho l’impressione che il pubblico, a fine spettacolo, per qualche ora, provi l’emozionante sensazione di riscoprirsi contemporaneo a qualsiasi uomo della storia dell’umanità e di aver avuto accesso, per un breve istante, al grande deposito dell’immaginario collettivo.
Porti avanti una tradizione, che al di là della sua specificità, ovvero quella “canterina degli antichi contastorie e affabulatori”, rischia di sparire. Qual è l’approccio dei giovani artisti e spettatori rispetto a questa tradizione?
Il pubblico reagisce benissimo poiché attraverso un linguaggio semplice e immediato, comprensibile a tutti, si ritrova a confrontarsi direttamente con grandi contenuti, senza dover perdere tempo a cercare di decodificare il linguaggio dell’interprete.
Credo che l’attore e il pubblico debbano avere un linguaggio comune, magari alto, ma comune. Hanno bisogno di intendersi e partecipare insieme a un rito. Questo rito, nel mio caso, affonda le radici nel terreno antropologico del comunicare attraverso la funzione del racconto, funzione che è anche alle origini del teatro. Non mi importa se questo sia moderno o alla moda. Lo faccio perché mi fa star bene e fa star bene chi viene ad ascoltarmi. Grazie alla capacità di immedesimazione, per un’ora, io e il pubblico dimentichiamo noi stessi ed entriamo insieme in un altro mondo. Io e il pubblico, il più delle volte, ci facciamo del bene.
In una conversazione pubblicata proprio su Zenit hai rivendicato il fatto che anche il tuo sia teatro di ricerca. In cosa consiste la ricerca e quali margini di sperimentazione ti concedi?
Ho difficoltà a rispondere a questa domanda poiché non ho ancora ben capito in cosa consista la sperimentazione. Se sperimentazione vuol dire sofisticato e incomprensibile a tutti i costi, dove il trash è elevato a sistema estetico e i suoi protagonisti credono di essere gli eroi del mondo occidentale, io dico no, che il mio modo di lavorare non è affatto sperimentale.
Se per sperimentazione, invece, si intende studio, una certa onestà intellettuale e artistica, se è un impegno con se stessi a seguire strade sempre nuove senza troppi strombazzamenti e manifesti culturali, sì, io sono un attore che sperimenta continuamente e che continua a cercare nuove soluzioni agli spettacoli che propone.
Andrea Pocosgnich
Altri articoli da OrizzontiFestival