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Gli orbi e la visione di Abbondanza/Bertoni

Abbiamo parlato con Michele Abbondanza dell’anteprima de Gli Orbi, spettacolo corpodotto da OrizzontiFestival e andato in scena a Chiusi.

foto Eleni Albarosa
foto Eleni Albarosa

«Abbiamo la sensazione che si potrebbe vivere una vita con delle visioni più ampie come quella di Argo dai cento occhi; io non dico di volerne cento, ma almeno da quei due che abbiamo ci voglio vedere bene». Incontro Michele Abbondanza, cappello in testa e la lunga treccia sulla schiena, nei giardini del Duomo di fronte al Teatro Mascagni di Chiusi, dove è andata in scena l’anteprima de Gli Orbi a Orizzonti Festival replicando poi la sera successiva. Due date in due giorni e la possibilità – non comune in un festival – di poter rivedere un segno e lasciarlo depositare avvicinando lo spettatore al termine inglese che sta per recensione, review, re-visione.
Gli Orbi, di Abbondanza/Bertoni, è una danza sulla cecità dell’anima che conduce ai vizi, sull’assenza di visione, sulla vacuità dello sguardo; è un lavoro di danza pura ma carica di segni, tra coreutica, gesto e parola, su una tematica ampiamente indagata: la spudoratezza del nostro tempo intesa come perdita di un senso di rispetto del sé e, quindi, degli altri. Ed è un’anteprima alle prese, in questa prima apertura al pubblico, con un necessario bilanciamento generale, un’asciugatura che permetta all’energia espressiva del corpo di non essere diluita da una gestualità/drammaturgia che all’occhio del pubblico, saturo oggi di segni provocatori, può risultare a tratti ridondante. Al netto di ciò, Gli Orbi dimostra di avere forza evocativa e una struttura ipnotica.

Parabola dei ciechi, Pieter Bruegel il Vecchio, 1568 circa
Parabola dei ciechi, Pieter Bruegel il Vecchio, 1568 circa

«Siamo partiti da un quadro magnifico di Bruguel, Parabola dei ciechi, raffigurante questi personaggi con gli occhi bianchi che si tengono per mano e guardano in su», afferma Abbondanza, e viene da chiedersi se quegli occhi – la cecità – non siano altro che un atto interrotto, onanismo dello sguardo, pupille girate all’indietro verso sé stessi. Come a dire, esclusa la visione dell’altro siamo vicoli ciechi. Si tengono per mano gli uomini nel dipinto e lo stesso fanno Michele Abbondanza, Antonella BertoniEleonora Chiocchini, Tommaso MonzaMassimo Trombetta; entrano in scena con gli occhi coperti, in un’ossessiva giga, danza popolare basata sulla ripetizione di un pattern coreografico che asseconda il battere e il levare dei corpi, tableaux vivants in chiave tribale del La danza di Matisse, vortice circolare che conduce il gruppo ma che non salva e al quale la storica compagnia affida la struttura drammaturgica e coreografica. A tratti sembra così che i personaggi che di volta in volta riescono a staccarsi per raccontare sé stessi, la loro follia e il proprio vizio, aprano uno squarcio di libertà e mettano quella piccola società in crisi; ma l’esito grottesco del loro apparire sembra ricondurre nuovamente il potersi muovere allo stare assieme. «La giga è un momento di sicurezza e di armonia ma anche di conformismo e di limite come lo è un collettivo certe volte, quindi le due direzioni sono un po’ il senso dello spettacolo. Nel proprio limite al vizio si trova anche la propria libertà».

foto Eleni Albarosa
foto Eleni Albarosa

La tecnica prospettica dello scorcio utilizzata da Bruguel si traduce sulla scena in un rituale pagano che lascia scorgere un contemporaneo affatto distopico. Un’eco di Macadamia Nut Brittle – spettacolo di Ricci/Forte ospitato nei giorni precedenti dal festival e ancora nell’immaginario del pubblico – ma ripensato in danza, nel quale viene da chiedersi se ci sia più umanità o più disumantià. «L’umanità racchiude in sé la disumanità: nello zen diciamo che la profondità dell’ombra dei pini dipende dalla brillantezza della luna, più è forte la luce più è scura l’ombra». Nella calma del pomeriggio chiusino, si rivela il rapporto di Michele Abbondanza con lo zen: «Io e Antonella partiamo come danzatori astratti puri lavorando con Carolyn Carlson a Parigi; fu lei che ci parlò dello zen per la prima volta, poi io ho approfondito la pratica in un monastero per parecchio tempo e l’ho adattata anche alla coreografia e soprattutto alla pedagogia».

Comporre assieme la parola e il movimento, «è stato un po’ come tirare una martellata al Mosè di Michelangelo: “perché non parli?”. Da danzatore astratto avevo voglia di far infine schiumare una parola, e mi sono chiesto quale fosse il modo non banale di appoggiarla al movimento: sentire quando la parola potesse danzare e la danza parlare. Come leggevo oggi, imparandolo dalla tua collega Valeria Bonacci su Zenit (Editoriale, in Zenit n. 6 2016), siamo molto più bravi a parlare che a muoverci, quando in realtà è il movimento che trasmette le verità, le sensazioni».

foto Eleni Albarosa
foto Eleni Albarosa

Nei giorni precedenti, durante le prove, avevamo incontrato  Danio Manfredini che, come mi racconta il coreografo, «interviene generalmente verso la fine del lavoro e così, con la freschezza di chi ancora non è salito sulla montagna, lo riesce a decifrare con sapienza e maestria e ci spiega un po’ quello che abbiamo fatto. È particolarmente prezioso perché in qualche modo traduce quell’astrazione che noi ci portiamo dietro, essendo fondamentalmente dei segni, dei corpi, e ci aiuta a tradurla in una condizione più teatrale, più leggibile». Ma con il mutare del corpo «la danza non cambia. Il limite si avvicina sempre di più, nella fatica, nelle cose che fai; ma allo stesso tempo vedi anche che dopo quarant’anni il tuo corpo si porta dentro la propria forma tutto il lavoro che hai fatto e te lo restituisce un po’. Chiaro, c’è un’energia meno esplosiva, un altro tipo di condizione, ma diventi più raffinato e allo stesso tempo lo spirito mi sembra che si rinforzi, che si alleni. Le due cose fanno in modo che la danza rimanga – io spero – comunicativa».

Luca Lòtano

Leggi anche: Zenit , “Accecare il buio” di Salvatore La Mendola e l’intervista di Pier Lorenzo Pisano ad Andrea Gentili, light designer dello spettacolo Gli orbi

Prossime repliche
14 settembre 2016 Teatro Vascello Roma Teatri di Vetro Festival
15 febbraio 2017 Teatro Cristallo Bolzano
16 febbraio Teatro Zandonai Rovereto

GLI ORBI
coreografie Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
con Eleonora Chiocchini, Tommaso Monza, Massimo Trombetta, Antonella Bertoni e Michele Abbondanza
secondo cast Marco Bissoli e Claudia Rossi Valli
luci Andrea Gentili
elaborazioni musicali Tommaso Monza
collaborazione alla creazione Danio Manfredini
organizzazione e ufficio stampa Dalia Macii e Francesca Leonelli
produzione Compagnia Abbondanza/Bertoni
coproduzione Orizzonti Festival.Fondazione
con il sostegno di Ministero per i beni e le attività culturali – Dip. Spettacolo, Provincia Autonoma di Trento – Servizio Attività culturali, Comune di Rovereto – Assessorato alla cultura e Regione Autonoma Trentino Alto Adige
ringraziamo Maria Giovanna Barletta

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Luca Lòtano
Luca Lòtano
Luca Lòtano è giornalista pubblicista e laureato in giurisprudenza con tesi sul giornalismo e sul diritto d’autore nel digitale. Si avvicina al teatro come attore e autore, concedendosi poi la costruzione di uno sguardo critico sulla scena contemporanea. Insegnante di italiano per stranieri (Università per Stranieri di Siena e di Perugia), lavora come docente di italiano L2 in centri di accoglienza per richiedenti asilo politico, all'interno dei quali sviluppa il progetto di sguardo critico e cittadinanza Spettatori Migranti/Attori Sociali; è impegnato in progetti di formazione e creazione scenica per migranti. Dal 2015 fa parte del progetto Radio Ghetto e sempre dal 2015 è redattore presso la testata online Teatro e Critica.

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