Da Biennale Danza 2016 una riflessione sulla sezione dedicata alla formazione, Biennale Danza – College, a partire dai laboratori condotti dal coreografo Sandy Williams e da Charmatz/Grandville/Caillet-Gajan
Nel contesto della Biennale Danza 2016 è in corso un laboratorio di redazione intermittente a cura di Massimo Marino e Lorenzo Donati (Altre Velocità), che sta raccontando il festival con contenuti esclusivi. Ospitiamo qui alcuni contributi della nostra collaboratrice Gaia Clotilde Chernetich sulla sezione biennale danza – college
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Questo articolo è apparso sul blog La danza nella città 2016, per gentile concessione.
Grazie alla direzione del coreografo fiorentino Virgilio Sieni, la sezione Biennale Danza – College ha preso forme e dimensioni molto diverse rispetto al passato. Non più un’occasione di alta formazione riservata a danzatori professionisti o semi-professionisti, ma una vera e propria sezione di Biennale pensata soprattutto per “corpi in ricerca” a prescindere dal loro statuto professionale e dal loro individuale rapporto con il mestiere del ballerino.
Oggi, con tre anni di esperienza all’attivo, si può dire che il compito principale assegnato ai programmi di formazione di danza sia stato quello di riattivare un legame con la città attraverso la vitalità iconica dei corpi danzanti. Riprendendo una delle modalità di creazione e di fruizione chiave dell’arte contemporanea, probabilmente si deve alla particolarità degli spazi veneziani il fatto che il festival sia stato il luogo d’elezione per la verifica di quella dimensione partecipativa che è propria di tutte le arti del nostro tempo e della danza in maniera particolare.
Inoltre, questa apertura verso spazi e corpi sconosciuti ha saputo rendere un’occasione formale come quella della Biennale disponibile anche a esperimenti fondati sulla possibilità di delegare una creazione artistica originale a corpi, sguardi e soggetti altri. È stato questo il caso, nell’edizione appena conclusa, dei laboratori condotti dal coreografo Sandy Williams e da Charmatz/Grandville/Caillet-Gajan, dove i laboratoristi hanno potuto apprendere coreografie precedentemente composte o metodologie di composizione coreografica vivendo l’opportunità di farle proprie e di poterle inserire nella propria “cassetta degli attrezzi coreografici” personale.
Danzatori provenienti da ogni dove, impegnati tanto all’aperto quanto al chiuso come la sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, il conservatorio Benedetto Marcello o il teatrino di Palazzo Grassi, hanno portato nella città le loro domande, le loro esplorazioni, i loro dubbi e infatti – laddove questo letterale “mettersi in questione” è stato meno centrale – meno potente è stato il risultato.
Questo è quello che maggiormente è emerso: mettere alla prova la danza nella dualità esterno/interno non significa solamente cambiarne il contesto, non significa solo cambiarne il significato, ma cambiarne anche il significante, riadattando il corpo a un nuovo spazio. La danza, che utilizza una sintassi sensibile, può far cambiare il significato di una parola a seconda del punto in cui la si ordina in una frase.
La nozione di trasmissione, fondamentale nella ricerca coreografica, può prendere diverse accezioni a seconda della funzione che ricopre: la trasmissione può, infatti, riferirsi a una coreografia intesa come partitura gestuale e di movimento, a un metodo di costruzione coreografica, a una pratica, a una tecnica… Sorvolando i programmi delle ultime Biennali emerge come tra le abilità di Virgilio Sieni ci sia stata anche quella di provare a declinare il più possibile il senso di questa nozione fondamentale dando una visibilità performativa a tutte le tipologie di ricerca.
Si è trattato di un gesto generoso e coraggioso che ha trovato eccellenti riscontri, ma che – volendo muovere una piccola critica – qualche volta è andato a sfiorare troppo da vicino la dimensione spettacolare compiuta, a volte dal punto di vista della forma, a volte da quello del contenuto.
In alcuni casi, in questa edizione come nelle precedenti, l’esito del laboratorio è stato percepito dal pubblico come una vera e propria rappresentazione su cui poter ragionare e fare le proprie valutazioni critiche mettendo sullo stesso piano gli esiti degli studenti e i lavori dei coreografi in programmazione al festival. Forse, corpi così sensibili, così disposti a studiare e ad accogliere l’incertezza quali sono quelli dei danzatori, amatori o professionisti, avrebbero bisogno di qualche cautela in più nell’essere mostrati, sottolineando con qualche piccolo accorgimento il loro essere “work in progress”, non per la fragilità delle loro creazioni, ma per la tutela del loro essere un campo di ricerca ancora aperto.
A consolidare la qualità di un festival di danza contemporanea ci potrebbe essere, allora, proprio un’aumentata consapevolezza della vulnerabilità che la danza chiede ai suoi artisti per poter entrare dentro le loro ossa. Chi ha potuto attraversare Biennale Danza come l’ho potuto fare io quest’anno lo ha senza dubbio percepito, quanto tutto sia delicato e forte quando il soggetto al centro dell’arte è il corpo, e quanto amore ci chieda questo desiderio di starci accanto danzando.
Gaia Clotilde Chernetich