Clubbing in Santarcangelo. Una riflessione a partire dalla “cultura del dancefloor” e dai lavori di Michele Rizzo e Cristina Kristal Rizzo
«This is my church / This is where I heal my hurt / For tonight / God is a DJ». La voce di Maxi Jazz attraversò l’agosto del 1998 con sonorità progressive e la promessa di una terapia con la quale porre rimedio alle ferite, troppo spesso fatali, del cuore. Sacerdote di un culto notturno, il leader dei Faithless trasformò in note sintetiche l’ardore carnale che animava i club europei, dove neofiti e presbiteri, avventori occasionali e irrecuperabili dipendenti dai rave condividevano in pochi metri quadri un rituale i cui atti fondanti – musica elettronica e danza ossessiva – sembravano condurre a un’estatica liberazione dalle piaghe terrene. A quasi vent’anni dalla pubblicazione della celebre hit, i versi di God is a DJ potrebbero costituire oggi l’epigrafe da porre in calce a un saggio sul clubbing, che tenti di indagarne pratiche e teorie: non soltanto strutture sonore di playlist e pattern coreografici, prossemica e interazioni verbali dei partecipanti, ma soprattutto quell’emancipazione dai vincoli imposti dalla società e quelle graduali sinestesie percettive che sembrano ricondurre l’esperienza della discoteca a un viaggio ascetico.
Come già acutamente osservato da Massimo Marino in un articolo su Doppiozero, quest’ultima edizione del Festival di Santarcangelo ha avuto il merito di aver definitivamente sdoganato in ambito teatrale «quella strana, elettrica, alienante ed entusiasmante, liberatoria, democratica agorà incubatrice di comuni solitudini e provvisorie comunità che è la forma “discoteca”». Se l’estetica del clubbing sembra aver attraversato i dieci giorni del festival costituendone quasi un manifesto implicito – non dichiarato e tuttavia innegabile nella proposta di performance accomunate da forme di ritualità ora frenetiche, ora contemplative – sono stati innanzitutto Michele Rizzo e Cristina Kristal Rizzo a porre al centro del proprio spettro d’indagine, con suggestioni ed esiti diversissimi, quella “cultura del dancefloor” troppo spesso relegata a semplice fenomeno di costume.
Higher, presentato nello spazio atipico, ma denso di seduzioni pop, del Centro Commerciale Teorema, rivela sin dal titolo polisemico una complessa stratificazione concettuale. Quello che può infatti suonare in prima istanza come un banale invito a porsi “più in alto”, è nel linguaggio quotidiano e informale l’aggettivo riservato agli stati alterati di coscienza indotti dagli stupefacenti, così come l’epiteto per eccellenza riservato a Dio, l’Altissimo: un incontro tra psichedelia e misticismo che la lingua ha paradossalmente reso possibile e che la coltissima ed enigmatica creazione di Michele Rizzo – leccese di nascita ma olandese di formazione e adozione – investiga attraverso gli schemi della danza da discoteca. A sottolineare il tentativo di tradurre coreuticamente la spiritualità del clubbing, Rizzo costruisce un prologo alla performance vera e propria: un segmento in cui la scena vuota, offuscata dai fumogeni, è animata soltanto da ipnotici giochi di luce. Piccoli punti luminosi posti sul fondale, accendendosi e spegnendosi ritmicamente, disegnano così una costellazione geometrica che, come un mandala, possa introdurre lo spettatore a un percorso iniziatico nel quale il corpo segue, e mai precede, una condizione psichica: e la danza abita così il palcoscenico solo dopo lunghissimi minuti, risultando tuttavia soltanto affiancata all’affascinante apertura dello spettacolo e non riuscendo a sfruttarne le potenzialità espressive.
Sulle basi elettroniche di Lorenzo Senni, Juan Pablo Camara, Max Goran e Michele Rizzo escono dalle quinte uno alla volta: solitari così come i loro gesti, percorrono lo spazio scenico lungo traiettorie che, seppur destinate a incrociarsi, non consentono alcuna interazione. In una gestualità misurata, composta da passi lenti e dalla pressoché totale assenza di movimenti di braccia, i tre ripetono parossisticamente lo stesso disegno coreografico, ora su piani sfalsati, ora sulla stessa linea parallela al proscenio, con minime e personali variazioni di postura o di forza nel gesto. È proprio nel sincronismo imperfetto e nell’attitudine profondamente diversa con cui i tre affrontano la medesima partitura che si fa più scoperto il gioco teorico di Rizzo, suggerito anche dalle fisicità contrapposte dei danzatori: a essere analizzata, in questo club dove sia il corpo dei performer, sia l’attenzione dello spettatore sembrano condotte all’estremo proprio in virtù del meccanismo ripetitivo, è infatti l’identità individuale, la cui messa in discussione non evolve mai verso semplicistiche azioni di gruppo. I danzatori di Higher hanno sì subito quella crisi dell’identità teorizzata dalla filosofa di Julia Kristeva – citata da Rizzo come proprio riferimento – e tuttavia hanno saputo trovare una possibile soluzione a essa in quel continuo oscillare tra personalismo e simmetria, autenticità e condivisione che proprio nei club trova un precario equilibrio. Grazie alle liturgie dei dancefloor, una riconoscibilissima società di individui soli sembra poter erigere un nuovo meticciato, una comunità mélange nella quale corpo e coscienza, cultura e natura possono finalmente convivere.
Ed è una comunità altra, orgogliosamente diversa, coloratissima e folle, quella chiamata a raccolta ed evocata da Cristina Kristal Rizzo in Prélude, presentato in anteprima al Lavatoio. Se Higher traduce sulla scena l’estetica del club affermatasi soprattutto a partire dagli anni Novanta, la nuova creazione della coreografa fiorentina amalgama le atmosfere lisergiche dei tardi anni Settanta con un domani fantastico: e l’incrocio tra i due universi è reso possibile dalla figura eclettica di Sun Ra, jazzista sperimentale e pioniere di quel movimento transdisciplinare che, con il nome di Afrofuturismo, cerca di rispondere alle più che mai attuali questioni della diaspora africana e della black culture attingendo a un immaginario fantascientifico e misticheggiante.
Proprio la testimonianza sonora di un happening tenuto nel dicembre del 1980, durante il quale il musicista e la sua Arkestra registrarono ventisei ore di improvvisazioni, costituisce la straordinaria cornice di Prélude: sia durante l’ora precedente, sia durante l’ora successiva alla performance, il pubblico è invitato a entrare e uscire dal Lavatoio, a fare propri brandelli sonori e a dimenticarli, mentre la stessa Rizzo, a tratti, compare sulla scena altrimenti vuota in fulminanti sequenze che dialogano con la jam session. Il processo osmotico tra platea e scena, tra “dentro” teatrale e “fuori” autentico è amplificato dalla porta spalancata sul fondo del palco, che, affacciandosi sulla strada, inserisce la Santarcangelo di bambini e cani, furgoni e anziani nel raggio d’osservazione dello spettatore; entrando da quella porta, sette danzatori (Linda Blomqvist, Vera Borghini, Tiana Hemlock-Yensen, Leonardo Maietto, Alice Raffaelli, Charlie Laban Trier e soprattutto la superba Annamaria Ajmone) animano il lungo segmento centrale, durante il quale Sun Ra lascia il posto alle sonorità contemporaneee di Palm Wine. Indossando iconici mantelli dal gusto seventies, i sette tessono una danza in cui la ripetizione della stessa struttura gestuale, compiuta in un tracciato di linee e diagonali, è frequentemente interrotta dal movimento autonomo e libertario del singolo: e in un secondo momento il rigido schematismo si frantuma ulteriormente in un labirinto di corpi, un ammasso fisico e mobile nel quale i performer, impegnati in un carnale floor work, agiscono come una massa liquida, vitale, sottilmente erotica. Accumulando fin troppe ambiziose soluzioni, Cristina Kristal Rizzo giustappone alla coreografia una lunga sezione in cui Charlie Laban Trier affida al microfono frammenti della propria biografia, mentre gli altri danzatori camminano sul palco lungo traiettorie rettilinee nelle quali, ancora una volta, al singolo è consegnata la possibilità di spezzare l’incanto della sincronia, e di abbandonare la sala dalla porta sul fondo per confondersi con la vita che accade, fuori, alla luce del sole. Finalmente curati nel corpo e nella mente, performer e passanti si confondono, accomunati forse dal non comprendere che è il dancefloor ad averli salvati: o Dio stesso, incarnatosi in un DJ.
Alessandro Iachino
Santarcangelo di Romagna, Festival Internazionale del Teatro in Piazza 2016 – luglio 2016
HIGHER
ideazione e coreografia Michele Rizzo
musiche Lorenzo Senni
con Juan Pablo Camara, Max Goran, Michele Rizzo
progetto luci Michele Rizzo
produzione Frascati Productions Amsterdam, ICK Amsterdam
supporto tecnico Lukas Heistinger
PRÉLUDE
concept Cristina Kristal Rizzo
danza Annamaria Ajmone, Linda Blomqvist, Vera Borghini, Tiana Hemlock- Yensen, Leonardo Maietto, Alice Raffaelli, Charlie Laban Trier
elaborazione sonora Simone Bertuzzi/Palm Wine
disegno luci Giulia Pastore
costumi Caned Icoda
produzione CAB008
con il sostegno di Regione Toscana e MiBACT
in collaborazione con Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza