Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 41 affrontiamo Cicerone e la sua idea del teatro come specchio della volontà umana.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottore di ricerca in studi umanistici all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Solo quattro discorsi oratori di Cicerone fanno richiamo agli attori e alla loro arte. Due di loro sono il Sui responsi degli aruspici e il Discorso contro Quinto Cecilio, detto “La Divinazione”, di contenuto piuttosto modesto – nonché ritenuti spuri da molti studiosi. Infatti, l’uno si limita a descrivere l’abilità oratoria di Lucio Saturnino, mentre l’altro paragona l’avvocato Alieno – che prese le difese di Quinto Cecilio Nigro, a sua volta retore – all’attore che recita ruoli secondari di una compagnia teatrale greca, che decide consapevolmente di non usare tutto il suo talento oratorio per non far sfigurare il protagonista, ben più scarso di lui. L’arte attoriale è dunque evocata solo di sfuggita, se non quasi come mero abbellimento. Entrambi i discorsi avrebbero potuto procedere senza un suo richiamo, o tutt’al più avvalendosi di un’immagine diversa.
Di ben altro tenore sono invece il Discorso in difesa di Sestio e il Discorso in difesa dell’attore Quinto Roscio, dove il richiamo agli attori risulta decisivo per la strategia di persuasione dell’uditorio. In questa sede, si vedrà da vicino solo il primo, non solo a causa della sua ampiezza, ma anche per le operazioni retoricamente raffinate che Cicerone pone qui in atto.
Vanno tuttavia fatti prima alcuni cenni all’antefatto del discorso. Cicerone era stato esiliato da Roma dal tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro nel 58 a.C.. Tra coloro che presero le sue difese e riuscirono alla fine a farlo ritornare in patria rientrava il tribuno Publio Sestio, che successivamente finì a sua volta sotto processo, dietro accusa dello stesso Clodio. Cicerone colse quindi al volo l’occasione per difendere l’amico, ma al tempo stesso per minare l’autorità del suo avversario, adottando una precisa strategia retorica: quella di insinuare il dubbio che costui non prese mai le difese dello Stato e lo portò di contro alla rovina. In termini più sottili, si può dire che l’intento ciceroniano era quello di insinuare che Clodio fu un tribuno della plebe che non ebbe il sostegno della plebe, dunque non esercitò mai de facto la sua carica pubblica.
Ora, per provare questo punto, Cicerone si avvale, in una fase avanzata del discorso, di una lunga argomentazione, mutuata dal teatro. Partendo dalla premessa che il popolo manifesta la sua volontà politica durante la visione degli spettacoli (cap. 50, § 106), egli sostiene che un segno dell’odio che la plebe romana nutriva verso Clodio si manifestò appunto durante due rappresentazioni teatrali: la messa in scena de Il simulatore di Afranio e la recitazione di un monologo dell’attore Esopo, che recitò un pastiche di versi di Ennio, di Pacuvio, dello stesso Afranio. In queste occasioni, infatti, sia gli attori che gli spettatori mostrarono il loro profondo disprezzo verso il tribuno. Gli uni lo fecero recitando i versi dei poeti in modo da alludere precisamente all’esilio di Cicerone e da lodare i servizi che questi fece allo Stato, che comportava un’accusa della cattiva politica di Clodio. Gli altri manifestarono invece il loro disprezzo urlando contro il tribuno e applaudendo o piangendo di fronte alle esibizioni degli attori, dando così a loro volta il sostegno a Cicerone. E dato che questi non fu di professione democratica, bensì appunto del partito degli optimates (ossia, semplificando, dei sostenitori della necessità di consegna il potere solo ai migliori tra i cittadini), ne segue quello che egli voleva dimostrare. Se il popolo si schierò a favore di Cicerone e non del democratico Clodio, vuol dire che costui non fece il bene per la plebe e non esercitò affatto il suo mandato.
Cosa può seguire, in una prospettiva più ampia, dall’analisi del Pro Sestio? In positivo, ne discende una suggestiva seppure abbozzata teoria del teatro come “specchio” della volontà umana generale. Se nelle reazioni degli spettatori e nelle esibizioni degli attori si manifesta ciò che il popolo vuole e pensa, allora è lecito dedurre che l’arte teatrale ha il potere di esprimere quello che spesso uomini e donne non riescono a esprimere. L’odio per Clodio cresceva ogni giorno, ma solo a teatro ebbe modo di esplodere e di far fuggire il politico dallo spavento. A rischio forse di esagerare, potremmo paragonare questa abbozzata concezione ciceroniana all’idea di Shakespeare del teatro come riflesso delle inquietudini dell’anima umana, che emerge ad esempio dalla nota e famosa scena della rappresentazione dell’uccisione del re Amleto nell’Amleto. Come infatti Claudio è costretto ad abbandonare la sala in preda al malessere, perché la visione del suo gesto omicida rivela chiaramente l’enormità del suo gesto e della sua colpa, così Clodio viene messo in fuga dal lavoro degli attori, che lo costringono a rendersi conto dei suoi errori e della sua impopolarità.
Ma in negativo, il discorso in difesa di Publio Sestio sottolinea pure come, perlomeno in questo contesto, Cicerone non fosse nemmeno un grande amatore del teatro. Egli qualificava quest’ultimo come una cosa «frivola», che in fondo piace soltanto alle basse fila del popolo e non agli optimates che rappresenta. Inoltre, quando allude al fatto che lo stesso Clodio usò in passato gli attori per ottenere consensi pubblici («proprio chi prima animava solitamente le sue assemblee con le grida scomposte di attori, proprio dalle grida degli attori veniva cacciato via dal teatro»), Cicerone mostra di considerare l’arte attoriale come moralmente neutra. Essa non è né buona né cattiva, poiché può essere usata ora bene, ora male: ora per rivelare con evidenza ciò il popolo pensa e ama realmente, ora per agevolare un politico scaltro e ambizioso nella scalata del potere.
Enrico Piergiacomi
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Lo stesso Lucio Saturnino, pur nella sua sfrenatezza e direi quasi demenza, fu un attore insigne e completo nell’arte di eccitare e di infiammare l’animo dei semplici (Cicerone, Sui responsi degli aruspici, cap. 19, § 41; traduzione modificata)
Il firmatario successivo è, se non mi inganno, Alieno: finalmente un avvocato di lunga pratica forense, però alle sue doti oratorie non ho mai fatto bene attenzione; certo che per gridare, lo vedo, è ben dotato di forza e d’esperienza. Qui sono riposte tutte le tue speranze; è costui che, se ti sarà dato l’incarico, sosterrà tutto il peso del processo. E non s’impegnerà neppure con tutte le forze di cui dispone, ma si preoccuperà della tua gloria e della tua reputazione e lascerà da parte un bel po’ delle sue capacità oratorie perché si abbia l’impressione che anche tu vali qualcosa. È quello che accade, come vediamo, in una compagnia teatrale greca. Spesso il secondo o il terzo attore, sebbene capaci di recitare un po’ meglio del primo attore, abbassano sensibilmente il tono della voce perché il protagonista primeggi su tutti; così farà Alieno: si porrà al tuo servizio, ti coprirà di lusinghe, si impegnerà assai al di sotto delle sue possibilità (Cicerone, Discorso contro Quinto Cecilio, detto “La Divinazione”, cap. 15, § 48)
Al giorno d’oggi, se non mi sbaglio, la situazione dello Stato è tale che, se si eliminassero le bande prezzolate, tutti avrebbero, evidentemente, in politica le stesse idee. Difatti, tre sono i luoghi in cui si può manifestare nel modo più chiaro l’opinione e la volontà del popolo romano: l’assemblea popolare, i comizi, gli spettacoli teatrali e gladiatorii (Cicerone, Discorso in difesa di Sestio, cap. 50, § 106)
Passiamo ora agli spettacoli, dato che il modo, giudici, con cui voi rivolgete su di me la vostra attenzione e i vostri sguardi mi porta a credere che mi sia consentito di attenermi a uno stile più dimesso. Nei comizi e nelle assemblee l’espressione delle opinioni è talvolta genuina, talaltra invece è falsa e viziata; negli spettacoli teatrali e gladiatorii si ha in genere l’abitudine, a quel che si dice, di provocare a pagamento – è tanta la frivolezza di alcuni! – degli applausi, d’altra parte fiacchi e rari; è tuttavia facile vedere, quando la cosa si verifica, com’è che avviene e da parte di chi, e qual è il comportamento del pubblico non comprato. Che bisogno c’è ora che io vi dica quali uomini e quale categoria di cittadini riscuotono i maggiori applausi? Lo sapete tutti. Ci sia pure in questo un po’ di frivolezza – ma non è così, poiché sono i migliori cittadini che vengono applauditi -; ma se frivolezza c’è, è tale solo per un uomo serio; per quelli invece che non si attaccano che alle cose frivole, che si lasciano prendere e guidare dalle chiacchiere della gente e, come essi dicono, dal favore del popolo, gli applausi devono necessariamente significare l’immortalità, i fischi la morte. A te dunque, Scauro, faccio questa domanda, particolarmente a te, che hai fatto celebrare dei giochi splendidissimi e fastosissimi: chi di codesti democratici ha assistito ai tuoi giochi? chi si è avventurato in teatro in mezzo al vero popolo romano? Perfino quel commediante per eccellenza [Clodio] – non è soltanto spettatore, ma pure attore e artista -, che conosce tutte le stravaganze ballerine della sorella, che si fa introdurre in una riunione femminile travestita da suonatrice di cetra, non ha mai assistito, durante quel suo tribunato incendiario, né ai tuoi giochi né ad alcun altro, tranne che a quelli da cui è riuscito a stento ad uscirne vivo. Una sola volta in tutto, aggiungo, quest’uomo tanto caro al popolo ha osato assistere a dei giochi, e fu il giorno in cui nel tempio della Virtù si è reso onore alla virtù e l’edificio eretto da Gaio Mario, salvatore del nostro impero, ha fornito al suo concittadino e difensore della repubblica il luogo della seduta che ebbe come scopo il suo rimpatrio.
In questa occasione furono ben chiari da due atteggiamenti opposti, i sentimenti che il popolo romano voleva manifestare. Anzitutto, alla notizia del decreto del senato, si ebbe un unanime scroscio di applausi all’indirizzo della deliberazione in sé e per sé e del senato assente; poi, all’indirizzo dei singoli senatori che uscendo dalla seduta giungevano in teatro per assistere allo spettacolo; e quando lo stesso console, che faceva celebrare quei giochi, ebbe preso il posto, il pubblico in piedi, protendendo verso di lui le mani per manifestare la propria gratitudine e versando lacrime di gioia, rese manifesti l’affetto e la compassione che sentiva per me. Al contrario, allorché arrivò quel forsennato di Clodio in preda a tutta la sua folle esaltazione, il popolo romano riuscì a stento a frenarsi, sì, a stento la gente frenò il suo odio e non colpì quel corpo infame e abominevole; ci fu però un unanime levarsi di grida, di pugni protesi, un coro di maledizioni. Ma perché io ricordo l’atteggiamento fermo e coraggioso del popolo romano, che già intravedeva la libertà dopo una lunga schiavitù, a proposito di un uomo che, benché fosse candidato all’edilità, non fu risparmiato nemmeno dagli attori mentre sedeva di fronte a loro per lo spettacolo? Si rappresentava una commedia romana, Il simulatore, credo, e tutto il coro, ad altissima ed unanime voce, protendendosi verso la faccia di quell’uomo infame, gli ridò: «A costui, Tito, / dopo i tuoi inizi e i risultati della tua vita viziosa…». Se ne rimaneva senza fiato, e proprio chi prima animava solitamente le sue assemblee con le grida scomposte di attori, proprio dalle grida degli attori veniva cacciato via dal teatro. E poiché s’è fatta menzione degli spettacoli teatrali, non tralascerò nemmeno di far notare che, nonostante la gran varietà di pensieri espressi dal poeta, non c’è stato mai un passo, adattabili chiaramente al mio caso, che sfuggisse a tutto il popolo o che non fosse messo in rilievo dallo stesso attore. E vi prego a questo punto, giudici, di non credere che sia stata un po’ di frivolezza a farmi scivolare in un genere di discorso insolito, se cioè in un processo parlo di poeti, di attori o di giudici.
Non sono, giudici, tanto inesperto di cause, tanto inesercitato a parlare da andare a caccia di parole da ogni specie di argomento e cogliere da ogni parte e gustare tutti i fiori del dire. So bene che quel che reclama la vostra gravità, il gruppo di amici qui presenti, il numeroso pubblico che assiste, l’onore di Publio Sestio, la grandezza del pericolo nonché la mia età e la mia alta posizione sociale. Ma io mi sono qui assunto il compito di insegnare per così dire ai giovani chi sono gli ottimati e nel farlo devo dimostrare che di quelli che sono ritenuti democratici non tutti lo sono davvero: dimostrazione che mi riuscirà facilissima se potrò rivelare il vero e sincero modo di pensare del popolo nella sua totalità nonché gli intimi sentimenti della cittadinanza. Che significato ha avuto il fatto che, al giungere nel bel mezzo dei giochi e sulla scena, mentre il teatro era gremito al massimo, della notizia fresca del decreto votato nel tempio della Virtù, un grandissimo attore [Esopo], che certamente ha sempre recitato sia sulla scena politica che su quella tragica le parti migliori, commosso fino alle lacrime per questa gioia improvvisa mescolata al dolore e alla nostalgia della mia persona, difese davanti al popolo romano la mia causa con parole ben più efficaci di quelle che avrei potuto adoperare io? Ché non era solo la sua arte, ma pure il suo dolore che interpretava il genio di un grandissimo poeta; e con quale energia recitando: «colui che con animo forte lo Stato difese, / sostenne e restò fedele agli Achei» è a voi che diceva che io sono rimasto fedele, sono le vostre classi che indicava col gesto! Tutti chiedevano con insistenza il bis quando declamava «nel pericolo / non esitò a offrire la vita né risparmiò la sua testa». Quante acclamazioni accompagnavano la recitazione di questi versi! Ormai non si badava più al comportamento scenico dell’attore, ma gli applausi andavano alle parole del poeta, alla passione dell’interprete, all’attesa del mio ritorno: «L’amico più grande nella più grande delle guerre…». E di sua iniziativa aggiungeva col calore della sua amicizia e il pubblico batteva le mani forse sentendo alquanto la mia mancanza «di grandissimo ingegno dotato».
E quali gemiti del popolo romano accompagnarono poco dopo la recitazione da parte dello stesso attore delle famose parole della stessa tragedia: «O padre mio!». Ero io, io, di cui egli riteneva di dover piangere l’assenza come si piange quella d’un padre, e padre della patria m’aveva spesso chiamato in senato Quinto Catulo insieme con molti altri. Quante lacrime versava su quei famosi incendi e rovine da me subite, sul padre messo al bando, sulla casa incendiata e distrutta! E recitò in modo sì commovente che, ricordata la prosperità d’un tempo, rivoltosi agli spettatori con le parole «Tutto ciò ho io visto dalle fiamme avvolto» spinse alle lacrime anche i miei nemici e detrattori! (Cicerone, Pro Sestio, cap. 54-57, §§ 115-122)
[Uso le traduzioni dei discorsi ciceroniani di Giovanni Bellardi (a cura di), Cicerone: Le orazioni, Torino, voll. 4, UTET, 1975-1978]
Invece oggi quell’attore che parodizza e mette in ridicolo il politico, viene da quest’ultimo applaudito e nell’applaudire viene a sua volta applaudito dal popolo che applaude al contempo “fustigatore” e “fustigato” e via così tutti amici di tutti.
Quel che invece mi pare non sia cambiato sia l’innato sospetto per la democrazia e l’altrettanto innato pruriginoso desiderio dell’uomo solo al comando.
Un carissimo saluto.
Claudio.