Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Vitruvio ragione su come l’architettura possa essere al servizio dell’attore parlando di luoghi ideali all’espressione artistica.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottore di ricerca in studi umanistici all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Finché sarà cioè considerato inattuale quello che attuale fu sempre
e che oggi più che mai è attuale e fa bisogno – il dire la verità
(Nietzsche, Considerazioni inattuali I: David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore, finale)
Colui che vuole oggi diventare esperto di architettura è necessariamente costretto alla specializzazione. A causa del grado di complessità tecnica raggiunta dalla disciplina, l’aspirante architetto è disincentivato ad apprendere o ad affinare il suo mestiere attraverso la contaminazione con altri ambiti del sapere. Il suo destino è chiudersi nel suo settore di competenza: e se mai coltiverà altri interessi, lo dovrà fare considerandoli come un’appendice marginale, come una curiosità intellettuale, o come un modo per distrarre la mente dalle fatiche quotidiane.
Tale non era però il parere di Vitruvio, che praticò l’architettura in età augustea e lasciò ai posteri dieci dottissimi libri sull’argomento. L’architetto doveva essere per lui un raffinato enciclopedista, perché dal confronto con le altre discipline – di per sé comunicanti – avrebbe acquisito un insieme di strumenti utili per esercitare al meglio il suo mestiere. Vitruvio annovera tra queste la filosofia, dalla quale si apprende la dirittura morale e molte nozioni di fisica, entrambe necessarie per realizzare opere architettoniche, così come la musica, che procura la conoscenza dei rapporti armonici e matematici, finalizzati ad esempio nella costruzione di baliste e simili macchinari.
L’enciclopedismo di Vitruvio non comprende in apparenza anche la recitazione. L’architetto non la nomina insieme alle discipline che agevolano l’esercizio dell’architettura. Nondimeno, il libro V mostra che Vitruvio rispettava molto quest’arte e si confrontava con essa, anzitutto per capire come scrivere il suo trattato.
È istruttivo in tal senso quanto si legge nella prefazione allo stesso volume. Vitruvio si rende conto che un trattato di architettura è di per sé oscuro e difficile da seguire totalmente, nei contenuti come nel linguaggio. E lo fa guardando per contrasto il lavoro degli attori, che recitando in versi riescono a trascinare la mente degli spettatori fino alla fine dello sviluppo di un testo poetico, senza annoiarla mai. Un simile lusso è purtroppo precluso all’architetto, che se intelligente cercherà di conseguenza di rendere la sua materia meno ostica e più agile da quello che è per sua natura. Un buon trattato di architettura deve essere scritto con l’intento di essere imparato a memoria, dunque – come viene detto implicitamente – con un metodo simile a quello usato dai poeti comici, che strutturano una composizione drammatica con parti singole e parti corali per agevolare il lavoro degli attori sulla scena. In un certo senso, allora, Vitruvio pensa che l’architetto che consegna su carta il suo sapere è simile all’artista di teatro. La differenza è che l’uno aiuta i lettori a seguire con scioltezza una materia complessa, l’altro si impegna a creare una drammaturgia che non affatica gli attori e procura agli spettatori un grande piacere.
Molte parti del libro V vanno però ancora oltre. Si riscontra infatti qui che Vitruvio stesso offre di frequente delle indicazioni capaci di aiutare gli attori ad esercitare al meglio la loro arte. Egli insegna i modi in cui costruire un teatro che amplifichi la voce di chi recita, rendendola ancora più chiara e piacevole per le orecchie degli spettatori, attraverso vasi risuonatori e alcuni artifici architettonici. L’architetto si mette così letteralmente a disposizione delle esigenze delle artista e, in cambio, impara per via indiretta qualcosa sul suo lavoro. Del resto, è proprio perché Vitruvio si focalizza sulle ripercussioni che l’architettura teatrale ha sulla grana della voce che egli si rende conto con tanta e tale lucidità come costruire un teatro, degno del nome che porta.
Le osservazioni prospettate potrebbero apparire banali. Ma in tempi travagliati come i nostri, dove per chi è al potere conta preservare gli edifici teatrali e tutto il costosissimo apparato amministrativo che lo circonda, invece che gli artisti che animano tali luoghi con la loro bellezza, esse acquistano un peso che Nietzsche avrebbe definito “inattuale”. Le semplici indicazioni di Vitruvio sottolineano una piccola verità, che si dovrebbe costantemente applicare: l’attore non deve essere al servizio del teatro in cui si trova a lavorare, ma al contrario è il teatro che deve essere al servizio dell’attore. Se non c’è una voce capace di risuonare, il luogo perde di senso, esiste ancora ma non ospita più la vita al suo interno.
Povera è la comunità che non costruisce o distrugge i suoi teatri. Più povera ancora quella che li costruisce e non li abita, accontentandosi della forma e dell’apparato esteriore, che perdura per anni come un gigante morto e freddo.
Enrico Piergiacomi
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La filosofia da parte sua rende l’architetto magnanimo e fa in modo che non sia arrogante, ma piuttosto flessibile, imparziale e, cosa più importante, fedele senza avidità (nessuna opera infatti può essere realizzata rettamente in assenza di lealtà e integrità morale). L’architetto non sia avido, la sua mente non sia presa dalla preoccupazione di ricevere regali, ma con rigore custodisca il proprio prestigio avendo cura della buona reputazione: questi infatti sono i valori che insegna la filosofia. Inoltre la filosofia comprende lo studio della natura (in greco, physiologia), del quale è necessaria una conoscenza particolarmente approfondita, poiché esso affronta problemi di fisica numerosi e di varia natura, per esempio riguardo alle canalizzazioni dell’acqua. (…) Così pure chi leggerà gli scritti di Ctesibio o di Archimede e di altri autori di trattati dello stesso genere non li capirà se su questi argomenti non avrà ricevuto un’istruzione da parte dei filosofi. L’architetto dovrebbe poi conoscere la musica, in modo da avere cognizione del sistema dei rapporti armonici e di quelli matematici e da essere in grado di regolare correttamente baliste, catapulte e scorpioni. (…) Così pure nei teatri quei vasi di bronzo che sono collocati in cellette sotto le gradinate secondo un criterio matematico in proporzione agli intervalli sonori, e che i Greci designano con il termine ēcheîa, vengono distribuiti, per dare accordi musicali, ovvero armonie, lungo la circonferenza, in rapporto alla quarta, alla quinta, all’ottava fino alla doppia ottava, in modo che la voce dell’attore, armonizzandosi con i suoni lungo la distribuzione dei vasi quando li urterà, venga amplificata e giunga alle orecchie degli spettatori più chiara e più gradevole (Vitruvio, Sull’architettura, libro I, capitolo 1, §§ 7-9)
Ma forse nei profani susciterà stupore il fatto che le facoltà naturali di un uomo riescano ad apprendere e a ricordare un numero così grande di insegnamenti. Quando però porranno attenzione al fatto che tutti i campi di sapere sono fra loro connessi e comunicanti, potranno facilmente credere che ciò è possibile. La cultura enciclopedica infatti è come un corpo unico costituito da queste membra. Ecco perché quanti fin dai teneri anni ricevono un’istruzione nei vari campi di sapere riconoscono i tratti comuni a tutto ciò che studiano e le relazioni reciproche fra tutte le discipline, e per questo apprendono tutto più facilmente (Vitruvio, Sull’architettura, libro I, capitolo 1, § 12)
Poiché non si scrive di architettura così come la storia e le opere in versi. Le storie trattengono i lettori per se stesse. Poiché riservano svariate attese di nuovi accadimenti. Mentre i metri e i piedi dei canti delle poesie, l’elegante disposizione delle parole e delle affermazioni tra persone distinte e la recitazione in versi spingendo in avanti le menti dei lettori conducono senza annoiare al termine ultimo degli scritti. Invece nei trattati di architettura ciò non può accadere, in quanto i termini concepiti per necessità propria dell’arte a causa dell’idioma insolito mettono innanzi alle facoltà di comprendere un dettato oscuro. Essendo pertanto tali argomenti per se stessi non facili e non essendo i loro termini chiari nell’uso comune, dunque anche gli scritti di precettori che divagassero a lungo, se non divenissero stringati e non fossero svolti con poche e diafane affermazioni, per l’impedimento costituito dall’abbondanza e dalla grande quantità dell’eloquio renderebbero confusi gli intendimenti dei lettori. Pertanto pronunciando termini difficili e i rapporti proporzionali delle membrature degli edifici, affinché siano imparati a memoria, farò un’esposizione breve. Poiché in tal modo le menti potranno apprendere tali dati più facilmente. A maggior ragione in quanto noto che la cittadinanza è distratta da pubbliche occupazioni e da affari privati, ho pensato di scrivere con poche parole, affinché leggendo tali dettami li potessero imparare in breve. E anche a Pitagora con coloro che seguirono la sua dottrina, sembrò opportuno scrivere dettami in volumi secondo sistemi cubici, istituirono un cubo di 216 versi e ritennero fosse opportuno che essi fossero non più di tre in un trattato. Ma il cubo è un corpo con lati dall’eguale larghezza perfettamente quadrato a facce piane. Dopo che esso è stato gettato, su qualsiasi faccia si sia posato finché non sia mosso presenta una ferma stabilità, come la presentano anche i dadi che i giuocatori lanciano sul tavoliere. E sembra avessero preso quest’analogia da tale proprietà poiché tale numero di versi come il cubo, in qualunque mente si posi, dà luogo colà a una salda stabilità della memoria. Pure i poeti comici greci interponendo il canto del coro divisero gli scomparti delle opere drammatiche. Così dando luogo a singole parti col criterio cubico con intervalli alleggeriscono le recitazioni degli attori. Essendo dunque stati questi criteri con una misura naturale osservati dagli antichi e avvertendo nell’animo che io debbo scrivere di argomenti inusitati e oscuri a molti, affinché possano penetrare più facilmente nelle menti dei lettori, pensai di scrivere brevi volumi. Poiché così saranno di facile comprensione (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, prefazione, §§ 1-5)
Ci si deve anche preoccupare con diligenza che il luogo non sia sordo, ma che in esso la voce possa propagarsi il più chiaramente possibile. Ciò però potrà aver luogo in tal caso sarà scelto ove esso non sia impedito dal rimbombo. D’altra parte la voce come il respiro fluisce nell’aria ed è in atto quando diviene sensibile all’udito. Essa si muove con infinite circonferenze di cerchi, come quando gettata una pietra nell’acqua stagnante si formano innumerevoli cerchi ondosi che si ingrandiscono, partendo dal centro il più ampiamente possibile e propagandosi, se non li interrompe la ristrettezza del bacino o qualche ostacolo che non permette che i contorni di tali onde arrivino alla fine. Pertanto quando sono interrotte da ostacoli, le prime onde rifluendo scompigliano i contorni delle seguenti. Con lo stesso principio la voce in tal modo si propaga a cerchio, ma nell’acqua i cerchi si muovono sul piano nel senso della larghezza, la voce sia avanza nel senso della larghezza sia si eleva gradualmente in altezza. Pertanto come nell’acqua con i contorni delle onde, così capita nel caso della voce quando nessun ostacolo interrompe la prima onda, non disturba la seconda né le seguenti, ma tutte senza echi pervengono alle orecchie di chi sta più in basso e di chi sta più in alto. Pertanto gli antichi architetti perseguendo le impronte della natura con indagini sull’elevazione della voce realizzarono le gradinate dei teatri e cercarono di ottenere tramite la normativa dei matematici e la teoria musicale che qualunque voce si trovasse sulla scena, pervenisse più chiara e soave alle orecchie degli spettatori. Poiché come gli organi a lamine bronzee o a ēcheîa (risuonatori) di corno sono perfezionati fino alla chiarezza di suoni degli strumenti a corda, così dagli antichi furono istituiti accorgimenti razionali grazie alla scienza musicale per aumentare la voce nei teatri (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, capitolo 3, §§ 5-8)
In tal modo con questo calcolo la voce proveniente dalla scena diffondendosi come dal centro e muovendosi all’intorno e colpendo con percussione le pareti concave dei singoli vasi otterrà un’aumentata sonorità che per l’accordo si addice alla consonanza con tale voce (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, capitolo 5, § 3)
E se qualcuno prestasse attenzione a questi calcoli dedotti da tale diagramma, sarebbe capace di dar luogo più agevolmente a realizzazioni di teatri rispondenti alle leggi naturali della voce e agli allettamenti degli uditori. Qualcuno potrà forse dire che molti teatri sono stati fatti a Roma ogni anno e che non vi è stata in questi alcuna considerazione di queste regole, ma sbagliare in ciò, che tutti i teatri pubblici di legno hanno moltissimi tavolati, che risuonano per necessità naturale. È per il vero possibile osservare ciò anche dai citaredi, che quando vogliono cantare con un suono superiore si rivolgono verso le porte della scena e in tal modo ricevono dal loro aiuto la risonanza della voce (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, capitolo 5, §§ 6-7)
In tal modo sarà fatto un pulpito più ampio di quello dei Greci, poiché tutti gli attori danno le loro azioni sulla scena. Nell’orchestra invece ci sono le sedi riservati ai seggi dei senatori, e l’altezza di tale pulpito non sia maggiore di cinque piedi, affinché coloro che siederanno nell’orchestra, possano guardare i gesti di tutti gli attori (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, capitolo 6, § 2)
Ora che tutti questi argomenti sono stati spiegati con la massima cura e solerzia, allora bisogna anche in ogni caso preoccuparsi molto attentamente che sia scelto un luogo in cui la voce si adagi con levità e ch respinta non rimbalzi indietro riportando alle orecchie parole non chiare. Poiché vi sono alcuni luoghi che impediscono per natura le propagazioni della voce, come i dissonanti, che in greco sono detti katēchoûntes (che respingono indietro i suoni), i circumsonanti che presso quelli sono denominati periēchoûntes (che respingono i suoni tutt’intorno), ci sono inoltre i resonanti che sono detti antēchoûntes (che danno luogo a echi di rimando) e i consonanti che chiamano sinēchoûntes (che corroborano i suoni). Sono dissonanti i luoghi nei quali la prima voce quando è stata trasportata in alto, urtata da corpi solidi posti in alto e respinta rimbalzando verso il basso impedisce l’elevazione della voce successiva, circumsonanti invece quelli nei quali la voce costretta a vagare all’intorno dissolvendosi, risuonando nel tratto centrale della parola, senza le desinenze finali, allora si estingue con un incerto significato delle parole, resonanti invece quelli nei quali le parole, colpite con percussione da parte di un corpo solido, rimbalzando, con la creazione di echi rendono doppie per l’udito le desinenze pronunciate per ultime. Analogamente sono consonanti i luoghi in cui la voce aiutata dal basso innalzandosi con volume aumentato arriva alle orecchie con distinta chiarezza di parole. Così se nella scelta dei luoghi si farà scrupolosa attenzione, l’efficacia della voce riuscirà migliorata con discernimento per il suo utilizzo nei teatri (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, capitolo 8, §§ 1-2)
Si costituiscano altresì nei tre portici ampie esedre, con sedili su cui filosofi, retori e altri che si dilettano di studi possano disputare stando seduti (Vitruvio, Sull’architettura, libro V, capitolo 11, § 2)
[Le citazioni sono tratte da Pierre Gros (a cura di), Vitruvio: De architectura. Volume primo, traduzione e commento di Antonio Corso e Elisa Romano, Torino, Einaudi, 1997]