Teatro della Tosse. Abbiamo incontrato il direttore Amedeo Romeo e abbiamo parlato di riforma, di prospettive, di cariche manageriali e competenze artistiche
Il Teatro della Tosse ha lavorato in questi anni condividendo visioni diverse dentro una direzione artistica plurale, in grado di accogliere proposte da provenienze diverse, quindi in controtendenza rispetto a un concetto di accentramento altrove invece molto diffuso. È un po’ come aver anticipato alcune istanze di una riforma ancora di là da venire…
Quando abbiamo letto il testo della riforma e abbiamo deciso di presentare la domanda come Tric ci siamo resi conto che sembrava disegnata su di noi. Non che fossimo un esempio, ma ciò che è stato pensato era vicino al percorso inaugurato con Emanuele Conte nel momento in cui ha scelto di lavorare prima con Massimiliano Civica e poi con Fabrizio Arcuri, per evitare una direzione artistica monolitica ma che sappia confrontarsi con altre figure capaci di dialogo continuo. Quando accade questo si ha già da subito un interlocutore interno cui sforzarsi di presentare il progetto, farlo capire, affrontare i punti deboli. Anche il mio inizio di direzione ha corrisposto con ancora maggiore ricorso alla pluralità e allo scambio, come accade in molte città europee. E ciò è visibile anche oggi con la presenza di due caratteri artistici diversi come quello dello stesso Conte e di Michela Lucenti, capaci però di lavorare insieme mescolandosi come nel caso di questo recente Orfeo Rave, accogliendo l’uno la visione dell’altra.
Questo dà anche un altro esempio potenziale al futuro, perché se sul piano organizzativo la Tosse ha precorso i tempi, il passaggio di questa contaminazione in ambito creativo potrebbe suggerire lo stesso percorso.
Qui c’è stato un cambio generazionale molto forte già dall’ingresso di Civica in poi. Siamo nel momento di una nuova accelerazione che non mostri solo la possibilità ma la responsabilità delle scelte, delle idee; questo punto della separazione delle carriere tra quella organizzativa e quella più strettamente artistica, uno di quelli più criticati della riforma per possibili scenari oscuri, è un principio che ritengo giusto perché per fare il direttore c’è bisogno di tempo, di libertà intellettuale e pratica; le due cose sono realmente incompatibili.
Da questa prima analisi sembra che i cambiamenti, prima di essere imposti dal potere centrale, siano sperimentati in autonomia e più rapidamente dalle esperienze locali.
Nel momento in cui si viene assegnati a una categoria, automaticamente si viene assegnati a un territorio. Ci viene riconosciuta una missione. Per noi ha significato diventare un punto di ricezione di progetti, di sollecitazioni; la gran parte del nostro tempo è per confrontarci con chi ci porta stimoli esterni e in primo luogo con le giovani compagnie, che dopo la riforma hanno maggiore difficoltà a girare perché se i teatri grandi devono produrre di più e fare tante giornate di produzione il sistema si satura più velocemente, andando a diluire anche il segno di una direzione artistica. Un assetto come il nostro permette allora di dare carta bianca ad artisti che stimiamo: li andiamo a produrre, a distribuire, mettiamo cioè a disposizione tutta la struttura tecnica e pratica perché sia facilitata la creazione artistica, che deve restare autonoma.
Dall’altro lato sentiamo questa missione nel rapporto con la città, i suoi luoghi culturali e sociali, i suoi spazi storici; abbiamo anche uno spazio dedicato alla musica, La Claque, dove in un anno facciamo centinaia di concerti di gruppi locali o che vengono dall’estero, per accogliere la città verso cui abbiamo un dovere, offrendole una funzione davvero di “rilevante interesse culturale”.
Avete aumentato anche l’offerta di spettacoli site specific, fuori da contesti teatrali tradizionali (come il caso proprio di Orfeo Rave). In virtù delle lontane ma ancora intense esperienze degli anni Sessanta, pensiamo al Living Theatre su tutti, cosa ritenete offrano allo spettatore contemporaneo?
La risposta nasce da tre punti di vista. In primo luogo molti spettatori sono ancora stupiti di avere questo rapporto diretto con ciò che stanno guardando, in cui riconoscono il tempo presente dell’azione proprio per quella riduzione di distanza e per la qualità cinetica: se lo spettatore deve spostarsi, seguire l’opera con un’azione fisica, sarà necessariamente più coinvolto; per chi mette in scena lo spettacolo c’è la possibilità di confrontarsi con uno spazio variabile, sai che cambierà e allora vai più all’essenza delle cose, c’è più artigianato nel costruire volta per volta l’azione adatta; poi in ultimo c’è questa prerogativa di far conoscere alla città quei luoghi altrimenti nascosti alla città stessa, che non li vive.
E ora una trappola. Prima parte: tu arrivi alla direzione, una carica quindi manageriale, con una formazione interamente artistica; in cosa ti aiuta avere tale provenienza?
In parte la risposta è banale: conosco il palcoscenico. Quindi se parlo con attori, registi, conosco da dentro le esigenze che mi portano. Poi c’è una risposta più articolata e riguarda la malleabilità nella gestione delle relazioni con le persone, qualità che la pratica teatrale sa sviluppare proprio aggirando le rigidità del mondo esterno.
E qui arriva la trappola. Rigiro la domanda: si legge nella tua biografia di attività formative per le aziende (Public Speaking, Team Building, Leadership, gestione dello Stress e comunicazione interpersonale; è docente di oratoria e di scrittura efficace); come questa esperienza aziendale ti aiuta nella funzione attuale? Cosa di quel lavoro può essere utile al teatro?
La condizione d’artista oggi necessita di sempre maggiore attenzione ad attività estranee all’arte in sé: saper leggere un bando, produrre un bilancio, leggere i cambiamenti normativi; quindi i due mondi mai come oggi viaggiano vicini. Ma più nello specifico di quella esperienza, nata per caso quando ho iniziato a fare dei corsi di teatro in grandi aziende molto sviluppate nella comunicazione, ho imparato lì che la leadership è oggi confronto, scambio, coinvolgimento. E ancor di più ho riportato indietro una chiarezza di obiettivi in cui il teatro è carente, quella proporzione dei cambiamenti in una prospettiva progettuale per cui compiere azioni, scegliere strumenti e persone, pensare in termini schematici con un fine sempre limpido.
E dunque quali sono gli obiettivi di “prospettiva” per il Teatro della Tosse?
L’obiettivo è stato fin da principio ampliare le nostre collaborazioni, con l’Italia e con l’estero, diventando parte attiva, motore, di una rete, senza dimenticare il fine mai in discussione di essere percepiti dalla città come un punto di riferimento, un’istituzione culturale in cui si possa decidere di venire per fiducia nella nostra qualità a priori rispetto all’offerta artistica più stretta. Ma il desiderio è anche quello di far conoscere il nostro lavoro fuori da Genova, non solo per semplice ambizione, ma perché questo sforzo sviluppi magari direzioni ancora ignote e tutte da indagare.
C’è un dibattito aperto lungo tutta questa stagione e riguarda il concetto di “teatro pubblico” che, come l’abbiamo conosciuto in questi decenni, è sempre più a rischio dispersione. Che cos’è per te?
Un teatro che deve andare a riempire quegli spazi nei quali il mercato non può insinuarsi. La nostra società è liberista, le leggi del mercato sono dominanti. Se io ho voglia di fare esperienza culturale dell’oggi posso farlo. Il sostegno è necessario fuori da questa dinamica del presente, l’investimento va fatto su ciò che non è ancora. È lì che la funzione pubblica fa un passo avanti e davvero è al servizio di una crescita per il cittadino: un teatro quindi che si ricordi non solo dei bisogni primari ma che prenda dei rischi per servire più nel profondo una richiesta, comunque sia formulata.
Simone Nebbia