La redazione de La danza nella città indaga la percezione del sistema danza italiano da parte degli artisti coinvolti alla Biennale Danza 2016. Intervista al coreografo torinese Daniele Ninarello.
Nel contesto della Biennale Danza 2016 è in corso un laboratorio di redazione intermittente a cura di Massimo Marino e Lorenzo Donati (Altre Velocità), che sta raccontando il festival con contenuti esclusivi. Ospitiamo qui alcuni contributi della nostra collaboratrice Gaia Clotilde Chernetich sul sistema danza, in un’intervista al coreografo daniele ninarello.
Questo articolo è apparso sul blog La danza nella città 2016, per gentile concessione.
Come funziona a tuo avviso il sistema di produzione della danza in Italia?
Credo che il sistema della danza italiano si stia evolvendo. C’è un forte desiderio di rinascere e di cambiare le cose, tutti insieme. Tutti abbiamo a che fare con la difficoltà di produrre, ma la condizione critica attuale del sistema riguarda ormai ogni luogo e ogni professione, senza confini. In realtà, sento molto forte il desiderio degli artisti e credo un tale desiderio non potrà che ricevere una risposta dal suo contesto di riferimento.
Invece, per quanto riguarda la circuitazione degli spettacoli, credi che ci sia un piano chiaro che favorisca la circolazione degli artisti e delle produzioni?
Non è facile rispondere. Ci sono due dimensioni: da una parte la rete che unisce le figure del settore, dall’altra, invece, ci sono le scelte individuali delle singole compagnie e dei singoli artisti. Ciascuno sceglie quale identità dare alla propria compagnia o al proprio festival a partire dalle scelte che si fanno in termini di programmazione.
Cosa ne pensi della formazione alla danza in Italia?
Ultimamente mi capita spesso di essere invitato a portare il mio lavoro in diversi workshop in giro per l’Italia. In questi contesti, sono felice di incontrare dei danzatori che onestamente sono eccezionali. Abbiamo dei danzatori curiosi, bravi, che hanno voglia di cambiare la situazione. In questo momento l’importante è far passare il messaggio della necessità di uno studio sempre più approfondito e rigoroso. È attraverso la pratica che si può creare il cambiamento.
E come vedi invece gli spettatori italiani della danza?
Naturalmente, tutto dipende da “dove” la danza viene rappresentata. C’è da fare un discorso di relazione, di direzione… la domanda è: «Scelgo o vengo scelto?». Oggi più che mai si verifica un fenomeno importante: aprire dei confini, abitare dei luoghi completamente diversi da quelli del teatro. Bisogna pensare la danza come un’incursione gentile e tattile in cui lo spettatore diventa testimone del tempo presente. Il pubblico ha sempre la possibilità di fare una scelta di tipo percettivo, scegliendo se stare a guardare o meno. Credo che questo aspetto sia molto importante: più la danza conquista nuovi territori, più il pubblico viene formato attraverso lo sguardo.
Pensi che ci sia qualcosa da cambiare urgentemente nel sistema della danza italiano?
Non saprei se farne una questione nazionale, forse no. Pensando a quello che posso fare io in prima persona, credo che espandere la ricerca della verità sia la cosa più giusta – permettimi questo termine – da accostare a qualsiasi disciplina, quindi anche la danza. Restare vicino all’urgenza di ciò che si sta creando, di ciò che si sta cercando, restare vicino al nostro naturale bisogno costante di scoperta permetterà sicuramente un’evoluzione collettiva, dove le persone potranno essere incluse e non restare fuori.
Gaia Clotilde Chernetich