Julieta, l’ultimo film di Pedro Almodóvar, contiene diversi riferimenti alla tragedia greca. Superbia, colpa e fato raccontano la storia di una madre e della sua figlia perduta. Recensione
Non è la prima volta che Pedro Almodóvar avvicina la tragedia greca classica come modello drammaturgico. Soprattutto nell’ultimo filone – da Tutto su mia madre in poi – i suoi personaggi si muovono in un «labirinto di passioni» che pare architettato dal Fato; attraversano gli eventi con uno sguardo sempre mezzo cieco, annaspando per localizzare e raggiungere una pur limitata serenità, un’oasi di pace nel mezzo di un’intricata foresta di piccole minacce. Come ben insegnava Alfred Hitchcock, una delle più efficaci chiavi verso l’attenzione partecipata del pubblico è quella di porre la consapevolezza dei personaggi un attimo indietro a quella degli spettatori, così che nel guardare quei destini che non sono nostri compiersi nel tempo della diegesi ci si senta, noi tutti, in una posizione privilegiata. Si aprono allora squarci di pietà, di commozione, di terrore, di compassione; ci troviamo ad accompagnare i nostri eroi alla scoperta di segreti di cui conosciamo già l’arcano. E il risultato non è puro intrattenimento, ma la più sottile empatia.
Se stiamo dedicando spazio, in queste pagine che osservano le arti sceniche, a un prodotto cinematografico, è perché Julieta – l’ultimo film del grande regista spagnolo, che rielabora tre racconti del premio Nobel canadese Alice Munro – dialoga direttamente con le strutture drammaturgiche dei grandi tragici del V secolo, così come Aristotele li aveva raccontati e studiati circa un secolo dopo nella sua Poetica, considerato il primo trattato di teoriche del teatro.
Julieta è una madre che ha perso le tracce della figlia Antía. Quando, in seguito a un casuale incontro con la sua inseparabile amica di infanzia Bea, ne scopre la nuova vita in Svizzera, felicemente sposata e madre a sua volta, decide di chiudersi in casa e scrivere, in un dettagliato diario, la propria storia, a partire dall’incontro con Xoan, il padre di Antía. Lavoro, quest’ultimo, che la separerà dall’attuale compagno e dalla vita quotidiana, gettandola in una larvale depressione che cresce man mano che la memoria ricompone gli avvenimenti.
Procedendo per flashback e salti temporali, Almodóvar alterna una Julieta adulta e una giovane, come a mostrare le due età della vita, quella precedente e quella successiva alla comprensione di una colpa che pare trasferirsi di generazione in generazione. Prendendo come opera esemplare l’Edipo Re di Sofocle, Aristotele identificava nell’attimo di svelamento e di agnizione (in cui l’eroe viene messo al corrente dei propri atti di superbia nei confronti degli dei) il perno della catarsi, quel momento in cui lo spettatore prova pietà e terrore, avvicinandosi al protagonista in un processo di identificazione quasi mistico, finendo per redimersi. In questa rilettura contemporanea, l’unità di azione si frammenta, diluendo i momenti di svolta lungo l’intera trama. In questo modo l’atto della catarsi si fa persino più doloroso: grazie all’espediente della narrazione diaristica e del racconto per interposta persona, il puzzle degli eventi si ricompone pezzo dopo pezzo e il quadro della colpa (quasi una maledizione che si ripete con inquietanti analogie) finisce per includere tutti i personaggi.
I riferimenti alla meccanica tragica sono quanto mai evidenti: Julieta legge libri a tema e tiene lezioni (pure se lievemente ingenue, che mescolano poesia tragica ed epica) sul mito di Ulisse e delle sua hybris; la governante Marian (Rossy De Palma) fa da indovino, sciorinando brevi profezie con il suo sguardo sbilenco; i personaggi minori si uniscono a coro a rivelare gli eventi del passato; i figli non conoscono le colpe dei padri eppure le avvertono come una seconda pelle. Il meccanismo drammaturgico fa sì che il legame e il rapporto di ruoli tra tre generazioni di madri e figlie finiscano per mescolarsi al punto che lo spettatore li osserva dall’interno, come se la Julieta giovane e quella adulta fossero in realtà i due volti dell’eroe.
Se nei titoli precedenti non mancava mai una vena ironica usata per stemperare certi toni da mélo espressionista, Julieta risucchia via quasi ogni accenno di sorriso. Il precipizio morale dentro cui scivola l’intera storia appare dolce e crudele insieme, complice la consueta maestria visiva fatta di colori accesi, morbida fotografia e pacati movimenti di macchina, al punto che un’unica scena salta agli occhi rispetto alle altre. Quando Julieta e Xoan si incontrano su un treno che corre in una buia notte innevata, dove consumano la loro immediata passione, i primi piani sono avvolti da toni scuri, una pasta di colori quasi caravaggesca riempie gli sfondi e incornicia così la genesi di quella indecifrabile dannazione.
Sergio Lo Gatto
JULIETA
Un film di Pedro Almodóvar
Con Emma Suarèz, Adriana Ugarte, Daniel Grao, Inma Cuesta, Darío Grandinetti
Soggetto Alice Munro
Sceneggiatura Pedro Almodóvar
Fotografia Jean-Claude Larrieu
Montaggio José Salcedo
Musiche Alberto Iglesias
Scenografia Antxón Gómezs, Carlos Bodelóns e Federico García Camberos
durata 99 min
produzione Warner Bros., El deséo, Spagna 2016