Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro.Varrone, in una delle poche opere rimaste, Sulla lingua latina, parla degli artisti di teatro utilizzandoli come fonte erudita.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottore di ricerca in studi umanistici all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Nella sua lunga vita, Marco Terenzio Varrone scrisse probabilmente più di 600 libri su diverse tematiche, che vanno dalla grammatica alla filologia, dalla storia all’urbanistica, e via dicendo. Oggi ci sono pervenuti solo i tre libri del Sull’agricoltura, una parte cospicua dei venticinque libri del Sulla lingua latina e numerosi frammenti da varie opere perdute, incluse le Satire menippee, che (come dice il nome) erano componimenti comico-seri ispirati alla filosofia cinica di Menippo. Questo dato di fatto deve indurre alla cautela più estrema, durante l’analisi del suo pensiero, perché dell’enorme sua produzione non sono rimasta che atomi di forma minuscola e risibile.
Altrettanta prudenza deve essere conseguentemente assunta anche nella ricostruzione di come Varrone valutasse l’attività degli attori, o più in generale degli artisti di teatro. Quanto ci è pervenuto consente di ipotizzare che nello scrittore convivessero tre atteggiamenti.
Varrone sfrutta anzitutto gli artisti di teatro come riferimenti eruditi. Essi vengono evocati, specificamente, nel sesto libro del Sulla lingua latina, per risolvere una questione linguistica e concettuale: quanti e quali tipi di azioni si possono distinguere nel linguaggio. La risposta che viene data è che se ne possono individuare tre, ossia il «pensare», il «dire» e l’«attuare». Infatti, si dice che i cantanti “agiscano” quando ricordano le antiche genealogie attraverso il canto, così come “agiscono” gli attori quando declamano, esprimono o rappresentano su un palco i pensieri di un poeta.
Ripreso direttamente da Menippo è invece il secondo atteggiamento, che consiste nella satira della follia e della vanità connaturata a tutti gli esseri umani. Abbiamo visto che il filosofo cinico equiparava la vita di uomini e donne a una grande commedia grottesca, in cui ciascuno recita dei ruoli assegnati da una capricciosa Fortuna impresaria e che un osservatore esterno non poteva che trovare ridicola. Gli attori di questo spettacolo si prendono infatti esageratamente sul serio, laddove in realtà sono burattini sotto il controllo di un altro. Ora, a quanto ci è dato sapere da quel poco che è rimasto, Varrone forse riprendeva e variava questa prospettiva nella satira intitolata Eumenidi, introducendo tuttavia un’importante differenza. Lo scrittore poteva essere vicino Menippo nel paragonare gli umani al coro della dea Demetra, i cui membri sono sballottati di qua e di là nella confusione totale, offrendo di sé uno spettacolo comico e appariscente. Ma se ne distingue, includendo nella commedia della vanità gli stessi attori, che in un frammento sono messi alla berlina per il loro incedere pomposo e altero. Se dunque in Menippo l’artista di teatro poteva in parte almeno idealmente essere messo al di sopra di tutti gli altri esseri umani, in quanto era considerato simbolo della condizione esistenziale in cui l’umanità è imprigionata, in Varrone non è situato in posizione preminente. Egli è vittima come chiunque altro del gioco comico che pare non aver fine.
Lo scrittore romano probabilmente ricorreva, infine, all’artista di teatro per indurre gli altri ad abbracciare la filosofia cinica, o almeno a interrogarsi su determinati problemi teorici e pratici. Varrone poteva, nello specifico: 1) evocare il lavoro del mimo per spiegare che l’anima è strettamente intrecciata al corpo (cfr. la satira I muli si grattano a vicenda), dunque, probabilmente, per respingere tutte quelle concezioni filosofiche che predicano la fuga da questo mondo e a unirsi con l’intelletto separato a un presunto piano trascendente; 2) per porre la questione se la musica abbia efficacia educativa, o al contrario se crei disordine mentale e morale (lo testimonierebbero forse i resti del dialogo inscenato ne L’asino [ascolta] la lira); 3) per indurre a coltivare la costanza nei proponimenti attraverso la satira Il sinefebo, ricorrendo a un oscuro e quasi indecifrabile richiamo ai danzatori che dileggiano Atteone; 4) per apprendere dal comportamento del citarista, il quale prima di suonare in pubblico esercita la voce a lungo e con sforzo in casa, a coltivare l’ideale cinico del saggio che raggiunge la virtù e la felicità sottoponendosi volontariamente a grandi fatiche.
Come si è detto, dato lo stato frammentario delle nostre conoscenze, è lecito solo registrare questi tre atteggiamenti, senza cercare di capire se Varrone ne prediligesse uno e/o li riconducesse tutti a un fine comune. Quel che è certo è che gli artisti di teatro rappresentano per lo scrittore un solido strumento euristico, essendo al tempo stesso un utile riferimento erudito, un simbolo della condizione umana, un’immagine che stimola all’indagine e al miglioramento di se stessi.
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Incomincerò innanzi tutto dalla parola ago [faccio]. Actio [azione] deriva da agitatus [movimento]: da qui la nostra espressione «l’attore tragico agit gestum [gesticola]» e «la quadriga agitantur [viene lanciata]»; da qui «agitur [è condotto] il bestiame al pascolo»; da qui angustum [angusto], cioè là dove a stento agi potest [è possibile muoversi]…. Tre sono i tipi di actiones [azioni] e di questi il primo è l’agitatus [moto] della mente, perché per mezzo di questa dobbiamo prima cogitare [pensare] quello che sumus acturi [siamo in procinto di fare], e poi parlare e fare. A proposito di queste tre specie di actiones il volgo non pensa affatto che la cogitatio [il pensare] sia un’azione, ma pensa che la più importante di tutte sia la terza, quella rappresentata dal movimento impiegato nel compiere qualche cosa. Ma quando cogitamus [pensiamo] qualche cosa e la agitamus [muoviamo] nella mente, agimus [agiamo]; e quando facciamo un discorso, agiamo. Da ciò, pertanto, il sostenere che l’oratore agere causam [muove una causa] e che gli auguri augurium agere [muovono auguri], sebbene in ciò parlino più che non facciano (Varrone, Sulla lingua latina, libro VI, cap. 6, §§ 41-42; traduzione modificata)
Meminisse [ricordarsi] viene da memoria [memoria], quando di nuovo movetur [ci si muove] a ciò che remansit in mente [è rimasto nella mente]. La quale memoria può venire dal verbo manere [rimanere], quasi fosse manimoria [rimanere nella memoria, o più letteralmente “rimanemoria”]. Così i Salii cantando «O Mamurio Veturio» rievocano la memoria vetus [il ricordo dei tempi antichi] (Varrone, Sulla lingua latina, libro VI, cap. 6, § 49; traduzione modificata)
Pronuntiare [proclamare] è composto da pro e nuntiare; pro [prima] ha qui lo stesso valore di ante [davanti], come in proludit [si prepara al cimento]. Perciò pronuntiare si dice degli attori, perché nel proscenio enuntiant [esprimono] le creazioni del poeta (Varrone, Sulla lingua latina, libro VI, cap. 7, § 58)
Il terzo stadio dell’azione è – dicono – quello che riguarda il campo in cui essa si verifica. In questo un certo errore si commette da coloro che per una somiglianza fra agere [agire], facere [fare] e gerere [condurre] pensano che significhi la stessa cosa. Può infatti uno facere qualche cosa e non agere, come il poeta che facit [fa] un dramma, non agit [agisce (il dramma]); al contrario l’attore agit un dramma, non facit (il dramma). Analogamente del poeta fit [è fatto] un dramma, non agitur [è agito]; dall’attore agitur non fit. Al contrario il comandante, poiché di lui si dice res gerere [condurre imprese] in questo non facit né agit, ma gerit [conduce], cioè sustinet [sostiene], con una metafora tratta da coloro che portano pesi, in quanto portandoli li sostengono (Varrone, Sulla lingua latina, libro VI, cap. 8, § 77)
Così gli attori tragici avanzano a capo eretto mentre, secondo la legge antica, le maschere dovevano prendere linea fino alla fronte… (Varrone, Eumenidi, fr. 154 = Nonio, Sulla compendiosa dottrina, voce Gibberum)
Spesso dai flauti, con le loro frequenti modulazioni, è scossa la mente di un intero teatro, innalzando i loro animi… (Varrone, L’asino [ascolta] la lira, fr. 359 = Nonio, Sulla compendiosa dottrina, voce Frigere)
Cominciò a criticare dicendo: «che sai e che ti rivolgi al volgo e che esponi quest’arte inefficace…» (Varrone, L’asino [ascolta] la lira, fr. 363 = Nonio, Sulla compendiosa dottrina, voce Vulgare)
Come le pertiche su cui camminano i pantomimi [sono travi] «per natura immobili», ma che ricevono il loro movimento dagli uomini che poggiano su di esse, così anche le anime nostre, le nostre gambe e i nostri piedi sono «a loro volta per natura [immobili]»), ma sono mosse dalla mente (Varrone, I muli si grattano a vicenda, o Sulla separazione, fr. 323 = Nonio, Sulla compendiosa dottrina, voce Grallatores; le porzioni del testo poste nel virgolettato sono scritte in greco nel testo)
Credimi, più padroni sono stati mangiati dai servi che dai loro cani. Se Atteone [li] avesse preceduti e avesse lui stesso mangiato i suoi cani per primo, non sarebbe divenuto oggetto di scherno per i danzatori nei teatri (Il sinefebo, ovvero Sulla continenza, fr. 515 = Nonio, Sulla compendiosa dottrina, voce Occupare)
Prima di dar fiato al flauto nel teatro, il suonatore si sfonda a casa sua i polmoni… (L’uomo dei tre percorsi e delle tre porte, o Sull’acquisizione della virtù, fr. 561 = Nonio, Sulla compendiosa dottrina, voce Ramices)
[La traduzione degli estratti del sesto libro del Sulla lingua latina è di Antonio Traglia (a cura di), Marco Terenzio Varrone: Opere, Torino, UTET, 2004. Infine, i frammenti delle Satire menippee sono raccolti da Jean-Pierre Cèbe (éd.), Varron: Satires ménippées, Rome, École française de Rome, 1972-1999, e tradotti da me (non esiste ancora un’edizione italiana dei frammenti menippei)]