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Roma chiude. Confessioni di un illegale

Roma chiude spazi sociali. Escono articoli. Si perde il fuoco della loro vocazione e si mescola a logiche di profitto e commercio. Cerchiamo di capire meglio quale sia stata e sia la loro funzione.

L'immagine capovolta del Pigneto, vista tangenziale
L’immagine capovolta del Pigneto, vista tangenziale

Ci sono quelle volte che mi sento illegale. Proprio mi guardo allo specchio e dico: sei fuori dalla legge. Ma con mia grande sorpresa non c’è nel mio sguardo nessun giudizio, non c’è nessun sintomo di colpa in quello che dico. Sono illegale e, forse, me ne vanto pure. Lo sono stato tutte le volte che ho frequentato gli spazi sociali, anche fosse per fare il mio mestiere di osservatore, per ascoltare un dibattito su politiche nazionali o di quartiere, per fare un laboratorio creativo, insomma per essere e sentirmi cittadino e non solo per berci una birra o – demonio – andarci a ballare. Ma non sono illegale per costituzione, lo sono per scelta. Lo sono perché tutto ciò che ho potuto realizzare, io e chi con me si è formato a Roma dall’inizio degli anni zero, l’ho visto, provato, sperimentato, dentro gli spazi sociali.

Mentre Roma, la capitale di questo paese, ne chiude ogni settimana, di bocche al contempo se ne aprono molte per discorrere sulla faccenda. E allora accade che da illegale una la ascolti, l’altra la ammetti pure, ma ne arriva una che proprio non va via come quelle macchie ostinate da consumarsi i gomiti. Il momento arriva quando sul Magazine de Il Sole 24 Ore Andrea Minuz prende la parola per intervenire su questa urgenza, focalizzata nel quartiere Pigneto con le chiusure quasi in contemporanea di Dal Verme e Init (e in qualche modo del Klamm), assecondando nella sua vena ironica – in acredine con un’invettiva polemica firmata da Christian Raimo su Internazionale  in linea con la sua abbagliata e sbrigativa confutazione di Massimiliano Tonelli su Art Tribune – una visione gretta e tendenziosa cui non si può lasciare facilmente il campo.

Eppure, il suo iniziale proposito di evidenziare come queste realtà siano fuori da una normativa in grado di sostenere e difendere l’attività che svolgono è anche condivisibile. Il problema nasce dal tono sbrigativo e saccente con cui tratta la faccenda, derubricando tutto il lavoro degli spazi sociali – annoveriamo tra di essi anche i Circoli Arci – in continua oscillazione con la vocazione a stare fuori dalla regola, fin quasi ad esserne vittima consapevole e dunque complice. La disamina parte dalla chiusura del Dal Verme per mano della questura in misura cautelare per l’art. 100 del Tulps, ossia quella sospensione di licenza “con finalità di prevenzione, rispondendo alla ratio di produrre un effetto dissuasivo su soggetti ritenuti pericolosi”. Cioè con lo stesso argomento che accomuna ad attività illecite come prostituzione, criminalità organizzata, banda armata. E allora stupisce come si possa esordire con una nettezza strabiliante: «Si scrive “spazio di aggregazione culturale dal basso e estraneo alle mode”, si legge locale con cui si evitano tasse, imposte e licenze per gli alcolici». A posto, allora. Ha già deciso dall’inizio. Ma no, non è tanto sprovveduto da dichiararsi così presto. Vi aggiunge pertanto che sì, questa è una situazione naturale là dove non ci siano appunto regole chiare e applicabili.

Poi però, prendendo a prestito stralci di frasi da un’intervista a qualcuno degli interessati, ne mette in ridicolo aspetti privi di contesto, giungendo a proprie conclusioni prima ancora di discuterle. Il vero problema non è l’arroganza, quella siamo contemporanei e la chiamiamo stile, ma il fatto di ignorare colpevolmente un punto fondamentale che cambia, di molto, le carte in tavola. Quelli che chiama «locali travestiti da spazi culturali», per i quali si strappa rapidamente i capelli con un vertiginoso «la chiusura di un locale è sempre una brutta notizia e noi qui facciamo il tifo perché ne aprano sempre di più», non sono bar o discoteche come cerca di mettere in evidenza, sono luoghi di aggregazione dove è possibile ciò che forse non rientra nel suo raggio d’azione: in questi spazi si dialoga, si forma comunità, si fa esperienza d’arte ed esperienza politica, si battono e dibattono idee come non accade in altri posti, si fa cioè resistenza civile contro un’informazione monocromatica, contro la cecità amministrativa verso i reali bisogni dei quartieri, contro la volontà di restringere la coscienza politica a mero esercizio di consenso, insomma contro ogni forma di fascismo in nome della sempre più faticosa pluralità.

Anche volendo soffermarci sull’arte, gli spazi sociali sono stati e sono ancora, per chi fa opera artistica, luoghi di indagine sul proprio limite, in cui capire di fronte a spesso pochi spettatori quale sia la reale caratura della propria creatività, in cui cioè creare un tessuto di tendenze che andranno a costituire una potenziale avanguardia, giacché in nessuna delle epoche precedenti essa è nata in casa. Tale vocazione non ha un’origine e non ha un fine, non è possibile costringerla in una categoria commerciale o di profitto, è vocazione all’errore e solo questi spazi hanno saputo e sanno sostenerla, nei modi consentiti dalla regola, ossia fuori dalla regola. Eppure questo paese sempre più burocratizzato, come proprio dice Minuz, ha bisogno crescente di disperdere energie perché dei semi rimanga una coltivazione imprevista – era Deleuze a dirlo: «non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora» –, ha bisogno di creare senso da ciò che apparentemente non ne ha (come puntualizza Graziano Graziani su minima&moralia). Dovrà farlo lontano da una politica che non sa più comprendere la filiera dell’arte, sviluppando questa urgente necessità di spazi perché sappiano diventare luoghi significanti, per un momento, per una sera appena, per il tempo di scomparire disciolta nella culla del tempo successivo. È l’ora, Minuz, di non danzare sul filo del sarcasmo, è l’ora di prendere parte se si desidera averla, una parte. È il momento di cambiare le lancette, di promuovere legale l’ora illegale.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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