Il quindicesimo Premio Europa per il Teatro si è svolto a Craiova, Romania. Un reportage e un commento dalla tre giorni di spettacoli, conferenze e incontri pubblici.
Inaugurato nel 1986, dopo nove edizioni in Italia (a Taormina e Torino), il Premio Europa per il Teatro ha imboccato la strada internazionale e raggiunto Tessalonica, Wroclaw e San Pietroburgo, coinvolgendo numerose e importanti istituzioni. La quindicesima edizione si è svolta a Craiova, Romania, tra il 23 e il 26 aprile, in connessione con il decimo International Shakespeare Festival.
Stando al comunicato stampa, il coreografo e regista svedese Mats Ek è stato insignito del quindicesimo PET per la sua abilità «nel mescolare danza e teatro secondo la sua personale e molto originale espressione».
Fin dalla terza edizione, accanto al premio principale, il Premio Europa Realtà Teatrali «ha lo scopo di incoraggiare tendenze e iniziative nel teatro europeo, considerato in tutte le sue forme, articolazioni ed espressioni». I vincitori della XIII edizione sono stati Viktor Bodó (Ungheria), Andreas Kriegenburg (Germania), Juan Mayorga (Spagna), National Theatre of Scotland (Scozia/Regno Unito) e Joël Pommerat (Francia). Un Premio Speciale è stato consegnato al maestro della regia romeno Silviu Purcărete, autore di alcune sorprendenti riscritture di classici senza tempo da Shakespeare ai tragici greci. Il programma è stato aperto da due spettacoli degli ex vincitori Thomas Ostermeier e Romeo Castellucci: Riccardo III e Giulio Cesare. Pezzi staccati, come liaison con il festival shakespeariano. Il Teatro Nazionale Marin Sorescu di Craiova ha poi ospitato un intenso programma di spettacoli, tavole rotonde, conferenze e discussioni aperte, uno strumento efficace per andare a fondo nel mondo degli artisti e, dall’altra parte, una preziosa piattaforma per il networking internazionale.
Il valore di un premio può dipendere in gran parte dal paese in cui viene assegnato. In luoghi in cui le arti lottano per ottenere attenzione, fronteggiando una profonda competizione con altre forme di espressione e comunicazione, un premio può funzionare come forma di riconoscimento, qualcosa in grado di creare uno slancio di emancipazione e di incentivare le peculiarità di un linguaggio. Molto spesso, questa funzione non riesce a scavalcare i confini di un pubblico molto specifico, che in fin dei conti resta lo stesso.
Eppure, stando a quel che abbiamo avuto modo di verificare a Craiova, il valore dell’ETP sta nella sua natura di evento inclusivo, un ambiente protetto in cui artisti e spettatori hanno avuto la possibilità di incontrarsi, discutere e aprire occhi e menti.
L’aspetto più importante della tre giorni è stato in effetti l’opportunità di andare a fondo di linguaggi così diversi.
L’artigianato onirico di Joël Pommerat dà prova di essere appeso a due fili gemelli: da un lato, la ricerca di una parola potente ed evocativa, dall’altro l’immaginario visivo dei primordi della cinematografia. La sua compagnia, Louis-Brouillard, fondata nel 1990, è stata in grado di raffigurare la società contemporanea con tutte le sue contraddizioni attraverso una forma di teatro che, nelle sue parole, è «un luogo in cui è possibile interrogare l’esperienza umana». Attori, musica e suoni sono tenuti insieme da un sottile lavoro sulla luce, creando una tensione continua nell’attenzione dello spettatore.
Seppur vicino alle istanze proposte (concentrate ancora una volta su questioni contemporanee), il drammaturgo spagnolo Juan Mayorga riempie le sue pièce con un fiume di parole che regola furiose relazioni tra i personaggi della vita quotidiana. In Reikiavik – presentato a Craiova – attraverso un testo probabilmente troppo lungo e pieno di parole Mayorga immagina l’epico duello tra due famosi giocatori di scacchi (che si rivela essere niente di più di un pirandelliano “gioco delle parti”) come metafora di una battaglia vitale in cui ciascuno lotta con un destino che pare già scritto in un libro.
Le azioni collettive di Viktor Bodó (la sua Sputnyik Shipping Company, ora dismessa, ha girato l’Europa in lungo e in largo) rappresentano un testo scenico molto complesso, articolato e multistrato in cui stili contrastanti coesistono nello stesso spazio-tempo. Teatro dell’assurdo, pantomima, teatro visuale e pungente ironia contribuiscono a conferire alle sue produzioni una grandiosità in grado di tenere insieme narrazioni non lineari e altrettante interpretazioni.
Nel corso del suo intenso lavoro sui principali palcoscenici tedeschi e in collaborazioni internazionali, Andreas Kriegenburg ha istituito quasi un marchio di fabbrica. La più evidente caratteristica è uno straordinario impatto visivo e l’approfondimento sulle pietre miliari della letteratura teatrale occidentale. Le tre ore di spettacolo del regista tedesco su Nathan il Saggio di Lessing si sono rivelate un’insolita esperienza per gli spettatori stranieri, messi alla prova dal tentativo di seguire i sovratitoli e allo stesso tempo meravigliati di fronte a una tale maestria nella recitazione e nel movimento scenico.
Il National Theatre of Scotland, un’istituzione relativamente giovane, sta provando ad aprirsi verso ardue sfide nella produzione di nuova drammaturgia e a puntare a standard molto alti.
Il suo Last Dream (on Earth) (creato e diretto da Kai Fischer) è un pezzo di storytelling che intreccia il viaggio disperato di un rifugiato africano verso la Spagna con il tentato allunaggio di Jurij Gagarin. È una sorta di radiodramma ascoltato attraverso le cuffie e non di meno completato dalla vista degli attori/musicisti sul palco, immobili sui loro sgabelli eppure tenuti vivi da un legame molto sottile di piccoli movimenti e gesti.
Se, a un primo sguardo, la scelta di sostituire una replica dal vivo con una proiezione video poteva apparire deludente, il documentario Within A Tempest. The Island (firmato da Laurenţiu Damian) ha offerto al pubblico l’opportunità di entrare nella mente di Silviu Purčarete. Guardare il grande artista romeno dirigere i propri attori nell’ultimo testo di Shakespeare, ha restituito l’essenza del lavoro creativo, con vorticose idee rifluenti dentro e fuori dal palco, costruendo e distruggendo intere porzioni di intuizione.
Curato dalla critica svedese Margareta Sörenson, l’incontro con Mats Ek (più di ogni altro) ha portato il pubblico a imbarcarsi in un viaggio nell’immaginario di questo maestro, aggiungendo commenti e note di un gruppo di accademici e critici. L’attenzione di Ek ai caratteri femminili è stato solo uno dei focus che hanno posto il coreografo al centro di una impegnata ricerca sull’essenza dell’essere umano: come ha detto Ada D’Adamo, «anche quando è staccata da una dimensione narrativa, la danza si poggia sempre sull’espressione, perché passa attraverso un corpo umano. Non si limita mai a farsi freddo geroglifico, è pura passione di carne e di ossa». Ek ha riscritto alcuni classici del balletto ottocentesco, segnando un nuovo sentiero che di certo deve molto alla lezione di altri artisti, eppure resta incredibilmente personale. Pezzi come Giselle (1982), Il lago dei cigni (1987), Carmen (1992) e La bella addormentata (1996) sono caratterizzati da una precisa cura per costumi e gesti, e molto semplici nell’approccio visivo, spesso usando solo piccoli oggetti o pezzi di mobilio. «Sono innamorato dei corpi – ha detto Mats Ek all’incontro – dei corpi veri, a volte sgraziati, a volte spiacevoli; ma un movimento deve essere autentico così da essere bello».
Axe, coreografato da Ek per Ana Laguna e Yvan Auzely, è stato un gentile ed elegante gran finale della cerimonia di premiazione: la semplice azione del tagliare la legna (con vero legno e una vera accetta) diviene sempre più ritmica e Laguna è come un fantasma che dal passato arriva ad attraversare lo spazio e passa per la memoria di Auzely, risolvendosi in una straziante ultima danza.
Ecco come uno spesso tessuto drammaturgico e una tecnica perfetta stabilisce una forte connessione tra quei corpi reali e il loro complesso substrato emotivo e psicologico: per usare le parole di Ek: «È impossibile separare corpo e testa. Il punto non è come appaiono i corpi, ma l’interazione tra corpo e azioni».
Per affrontare il momento di austerità, quest’anno il Premio (originariamente di 60.000 Euro e 30.000 per ETP Realtà Teatrali) ha subito una drastica riduzione. Se un contributo così sostanzioso come quello originario permette reali possibilità produttive anche per artisti inseriti in un contesto di così alto livello, la riduzione potrebbe portare a riconsiderare il senso stesso di un premio come questo e far emergere altre priorità: lo stesso denaro, ad esempio, potrebbe essere utilizzato a vantaggio della circuitazione internazionale degli artisti vincitori anche in paesi fino a quel momento non coperti dalle loro tournée.
La stessa cerimonia, mandata in onda sulla TV di stato e frequentata da un numero consistente di giovani e non abituali spettatori, è stata in qualche modo troppo formale, rischiando di cristallizzare l’immagine dell’attuale vitalità teatrale in un simulacro museale.
La premiazione è stata infatti condotta sulla falsariga di quella degli Oscar, con la differenza che, in condizioni di ristrettezze economiche, l’intera operazione ha avuto un sapore di antico e una qualità non all’altezza della confezione.
La critica si ammorbidisce nel momento in cui si considera l’insieme dell’evento, in grado di lanciare molti sguardi diversi ai linguaggi del teatro e dunque di compilare un esaustivo sommario della riflessione artistica sui temi contemporanei. Le conferenze, le discussioni aperte e persino i momenti informali di conversazione nello stupendo foyer del Teatro Marin Sorescu potrebbero allora rappresentare il più alto indice di successo nella raffigurazione dell’attuale urgenza del teatro europeo contemporaneo: incontrarsi, parlare, discutere, litigare.
Piuttosto che riconoscimento, adesione e accordo, potremmo aver bisogno di dubbio, dissenso e costruttivo disaccordo, per provare che il livello culturale del discorso multinazionale è la base su cui ogni altra forma di “comunità” deve essere edificata.
Come in ogni pièce ben scritta, un dialogo forte è fatto di contrasti. Facendo tesoro di queste opportunità di incontro, la comunità culturale potrebbe usare le arti come termometro etico; incoraggiare la possibilità di mostrare differenze e a volte di custodirle potrebbe essere la via per porre una domanda: fino a che punto dobbiamo considerarci simili per essere parte di un gruppo di liberi pensatori?
Su queste premesse, una riva comune su cui ormeggiare navi cariche di dubbi è il premio più prezioso che possiamo assegnarci l’un l’altro.
Sergio Lo Gatto
Teatro Nazionale Marin Sorescu, Craiova (Romania) – aprile 2016
Questo articolo è apparso, in inglese e italiano, sulla rivista internazionale Conflict Zones Reviews. Proprietà dell’Union des Théâtres de l’Europe e de la Méditerranée. Per gentile concessione.