Mark Rothko torna a imprimere le sue tele nel Rosso di John Logan portato in scena da Francesco Frongia al Teatro India di Roma per il Teatro dell’Elfo. Recensione e una gallery originale con i bozzetti del pittore Fabio Imperiale, realizzati nel buio della scena.
Lievitare il possibile, azzerare le distanze e limare i confini mentali. Solo gli artisti, i poeti, gli indovini di antichi vaticini, hanno saputo concepire un mondo oltre il mondo, l’essenza del visibile, il vero oltre la realtà. Tra di essi, i pittori. Ossia chi tra gli uomini possiede una concezione spaziale, di equilibrio tra geometrie mobili e geometrie fisse, in grado di alimentare il desiderio che esista la forma oltre la forma, che ogni spazio non sia altro da un contenitore di infiniti spazi. Ogni spazio, precisamente, un mondo. È in questa estensione del dominio della mente che si è distesa l’intera carriera artistica di Mark Rothko, pittore statunitense di origine lettone ed ebraica, autore di opere concettuali particolarmente dedite alla ricerca tra nettezza e sfumature, di colori i cui accostamenti sembrano avere già una connotazione di senso e covare in sé stessi la penetrazione dello sguardo. A Rothko è dedicato Rosso, testo di John Logan che ha visto le sale del Teatro India a Roma per la regia di Francesco Frongia del Teatro dell’Elfo; un duetto intenso tra il pittore – Ferdinando Bruni – e un suo aiutante, non certo allievo – Alejandro Bruni Ocaña.
Non, allievo. Non si può essere allievi di Rothko. Eppure quel giovane che penetra nel suo studio per stendere e preparare le tele, pian piano si fa portatore di un vento esterno cui l’artista non aveva posto rimedio; scalcia contro quella prepotenza del divenire in ciò che ha tenuto bloccato, senza finestre, senza luce naturale, sotto totale controllo della propria volontà. Ma il dominio dell’arte sulla natura non è possibile, pur che solo attraverso l’arte la natura è in grado di prodursi nel massimo rigoglio, nel trionfo del proprio segno estetico. Il giovane contamina Rothko di vita, egli ne ha perduto i caratteri primari, non ha con lei alcuna intimità, le sue opere continuano a vivere di un riflesso prodotto in un dialogo bidimensionale, ossia tra l’opera e l’artista, privo cioè della tridimensionalità di un referente, appunto la natura, la vita, che dell’arte è causa primaria.
Ci sono biografie che covano i semi dell’arte nei gesti, nelle scelte. Per Rothko il nodo che strinse insieme la vita e la carriera fu accettare prima e rifiutare poi nel 1958 la commissione dal Four Seasons Restaurant, sulla 54ª di New York, di dieci quadri per abbellire e dare lustro alla sala di pranzi e cene altrui; il suo obiettivo era insinuare senso in quello che non ancora sapevamo chiamare non luogo (definizione di Marc Augé risalente al 1992), ma che tale già si presentava agli occhi di chi cercava senso non dall’espressività accesa ma dall’essenza, come già ebbe modo di individuare Romeo Castellucci nell’opera omonima; Rothko scelse dunque la sottrazione dall’esporre, preferì salvare l’opera da uno svelamento non tanto al ridicolo, cui un artista è già avvezzo, ma all’indifferenza sovrana della distrazione. Arte, insomma, non è intrattenimento.
Se dunque la biografia avrebbe ridotto, come spesso accade, la portata dell’opera a sottolineare Mark Rothko, quest’opera di Logan/Frongia si pone invece come filtro per innescare altre riflessioni a partire proprio dall’artista, da quel contatto rifiutato e agognato, dalle tante dense citazioni di cui il testo si nobilita senza che ne sia sovrastato, da un comparto musicale classico ben orchestrato nelle scelte e nei volumi, con l’aiuto di due interpreti di pregio cui riesce la mimesi di ardire all’artista, rappresentato in un luogo che è già d’arte.
Le tele sono sulle pareti, sovrastano il loro dialogo, poi poco altro, giusto tavolini, cavalletti d’appoggio, whisky e residui di colore sui vestiti e il pavimento. Ma c’è un punto preciso in cui musica e movimento prendono la forma più elevata, quando i due assalgono contemporaneamente la stessa tela per stendere la prima mano di colore; il ritmo di entrambi si fa furioso, la musica ora innesca ora segue la loro danza, è impossibile capire cosa origini cosa. È accaduto in quel momento che ic due abbiano prodotto dinamismo, la stasi è rotta per sempre. E non c’è più nessuna paura, in quello stato quasi estatico, smette il timore dell’assenza della luce, della diminuzione dell’energia vitale: il colore è biologia, modifica la sua essenza perché a modificarsi è la percezione dell’uomo. E allora il Rosso, finché in vita, al nero non cederà mai.
Lo studio di Rothko è una camera di vuoti e di pieni, non ha sfumature ma in disaccordo con il divenire le cerca là dove nessuno saprebbe cercarle, nella nettezza, nella costrizione dello sguardo che non può evitare la tela; da quella profondità, una volta individuato il limite, Rothko assume la responsabilità di guidare nell’assoluto, dove lasciare perduto ogni visitatore. È per questo che non fu possibile esporre quei quadri nel luogo predisposto: un luogo indifferente innesca un processo di desertificazione lacerante perché dispersivo, incapace a concludere nell’opera ogni tentativo, ogni moto di violenza o richiesta d’aiuto. C’è un ultimo quadro, sembra avere una cornice anche interna, rosso nel rosso, e l’ombra di qualcuno che se n’è appena andato. O che sta, da tempo, andando via. Per l’unica strada percorribile, un passo dopo l’altro, lungo il perimetro di una tela.
Simone Nebbia
Teatro India, Roma – maggio 2016
Clicca su un’immagine per sfogliare la gallery. Disegni al buio di Fabio Imperiale (link)
ROSSO
di John Logan
traduzione Matteo Colombo
regia, scene e costumi Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña
Produzione Teatro dell’Elfo