Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, dal testo del novecento all’allestimento di Arturo Cirillo andato in scena al Teatro India. Recensione
«Non è lo spazio, è il tempo la distanza più grande tra due luoghi». Tennessee Williams lo dichiarava nel testo, in quel luogo a noi remoto che è la Chicago del 1944 tra i postumi della grande depressione, già soffocante scena madre del racconto Portrait of a Young Girl in Glass, antefatto letterario del testo teatrale Lo zoo di vetro portato in scena al Teatro India. E può essere proprio la distanza una delle chiavi di lettura della messa in scena che fa Arturo Cirillo dell’opera probabilmente più conosciuta e rappresentata in Italia del drammaturgo del Mississippi; distanza come eredità del tempo subita dai personaggi nel dramma di una memoria che li incatena al passato, luogo del rimpianto; distanza come prossemica del regista – prossimità che interpone tra sé e il testo – stigmatizzata da un allestimento che dilata l’urgenza della messa in scena nell’ora e quaranta del Teatro India, in un tempo che scorre lento ma “certo” come lo sfogliare un album di famiglia: atto sempre in bilico tra la partecipazione reale e la consuetudine. Creando all’uscita, dopo gli applausi e l’apprezzamento della sala, una domanda tanto perentoria quanto obsoleta: come percorrere la distanza che si crea tra lo spettatore e un testo cristallizzato tra i classici senza renderlo esso stesso immobile animale di vetro da ammirare?
Arturo Cirillo prova a farlo appoggiando la voce del protagonista e narratore, Tom Wingfield, sulle sue corde: raddoppiando così il ruolo di regista in interprete contemporaneo – dal coinvolgente realismo – fa immediatamente svanire l’immaginario americano forgiando la gabbia nella quale la famiglia vive sui rapporti interpersonali, sui caratteri, le ambizioni e le immagini che i personaggi hanno di sé stessi. Di chi stiamo parlando? Come ci racconta il figlio maschio, Tom, di una famiglia abbandonata dal padre (come la crisi, anche l’assenza dei padri ieri, e oggi) e condannata a un eterno ricordo: la giovinezza, per la madre (una travolgente Milvia Marigliano che affida l’ingombrante vitalità del personaggio al mestiere e alla comicità attoriale), ossessionata ormai dal poter vedere almeno la figlia Laura trovare un uomo che si prenda cura di lei e della sua zoppia, nonostante la ragazza continui a girare attorno a sé stessa, claudicante e monotona nella sua rabbia come i suoi dischi attorno alla puntina.
Laura (Monica Piseddu, granitica nell’espressività fino a restituire l’animo scheggiato della donna), appunto, figlia complessata che passa il tempo accudendo animaletti di vetro e che sarà abbandonata due volte dagli unici uomini che forse si è concessa di amare, il padre e poi Jim, costretta così a zoppicare non potendo far affidamento sull’appoggio dell’altro. E lo stesso Tom, più adulto che giovane, incastrato nella sostituzione del padre e quindi nel prendersi cura della famiglia frustrando la sua voglia di andare “Lontano, lontano” – come invocano i dischi di Luigi Tenco resi ancora più amari dalla voce della sorella – rifugiandosi ogni sera nell’alcool e, chissà, nel cinema. Sarà Jim (Edoardo Ribatto, tagliato su misura sul personaggio, così tanto da lasciar intravedere il modello) l’unico ad arrivare dal mondo esterno, a portare un movimento nella gabbia che si chiuderà però ciclicamente nell’ennesima rottura.
Fuggire dalla casa natale era l’ossessione di Williams, che presenta anche in questo testo gli elementi autobiografici ricorrenti: l’avversione del padre per il figlio, lontano dagli standard del maschio dell’epoca, il riconoscimento sociale, l’angoscia per la malattia mentale della sorella, riscontrabile in Laura così come nel disagio sociale di Maggie protagonista de La gatta sul tetto che scotta, altro testo portato in scena la scorsa stagione da Cirillo. E allora, per tornare alla domanda iniziale, anche stavolta sembra che il talentuoso regista non ambisca a ulteriori sponde di complessità oltre quelle presentate dal testo, pagando nella distanza tra lo spettacolo e lo spettatore.
Se l’unicorno di vetro di Laura alla fine “cade” rompendosi e mostrando la sua reale fragilità, il lavoro di Cirillo, di ottima fattura, non si rompe mai, immerso in una scenografia che è forse la parte meno riuscita dell’allestimento, se non quando agisce di sottrazione come nella scelta di rendere gli animali di vetro minuscoli e custoditi in una scatola; per il resto, le gigantografie che esplicitano l’album familiare e la palla stroboscopica nell’armadio risultano sproporzionate e ridondanti per un testo così delicato e a vocazione onirica.
Senza sorprese che esulino dalla – riuscita – cerimonia, dunque. La tenerezza con la quale si guarda alla fragilità della zoppia della figlia, all’infantilità della madre, alla gabbia dalla quale non può uscire il figlio, è la stessa che si prova guardando un testo che lontano dall’urgenza dell’autore non sempre percorre lo spazio tra il palco e la platea andando a intercettare il tempo più intimo dello spettatore.
Luca Lòtano
Teatro India, Roma – maggio 2016
di Tennessee Williams
regia Arturo Cirillo
traduzione Gerardo Guerrieri
con Milvia Marigliano, Monica Piseddu, Arturo Cirillo, Edoardo Ribatto
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Mario Loprevite
produzione TieffeTeatro
L’ennesima messa in scena di questo testo. Sempre la stessa cosa. Che senso ha riproporlo? Uguale ad altri cento già visti. Non un guizzo, non il coraggio di scelte diverse. E’ un testo così “ampio” che si potrebbero trovare mille chiavi di lettura. Di Cirillo devo ancor capire le grandi qualità che lo rendono uno dei registi più presenti nei cartelloni italiani. Beh forse una la si può immaginare ma lasciamo stare…..
Peccato