Presentiamo un approfondimento dell’opera drammatica Dantons Tod (La morte di Danton) di Georg Büchner
Il Georges Jacques Danton del Dantons Tod di Georg Büchner vuole morire. Sin dalla prima scena del dramma, il personaggio manifesta il suo desiderio di dissolversi nel nulla, confessando alla moglie di volersi sotterrare dentro il suo corpo, o disintegrarsi nel suo grembo. Perché? Da cosa dipende tale insistente amore per la morte, questo eros misto a thanatos, la cui soddisfazione è pure continuamente rinviata dallo stesso Danton?
La risposta alla domanda è più semplice di quanto sembri, è il testo a dircelo con chiarezza. Danton aspira alla tomba, in quanto ambisce in realtà al riposo. «Dicono che nella tomba c’è riposo e che riposo e tomba sono tutt’uno. Se è così, nel tuo grembo son già sottoterra». In altre parole ancora, Danton è stanco. E la morte gli sembra l’unica esperienza in grado di dare finalmente pace al suo animo che si dimena e freme.
Ma Danton non è il solo, nel dramma, ad aspirare alla morte, anche gli altri personaggi la ricercano, seppure non per farne diretta esperienza. La vogliono e l’hanno voluta i membri del popolo, per riversarla su tutti coloro che si suppone tolgano loro il cibo e altri beni primari: prima il re e la sua famiglia, ora gli aristocratici, che non hanno «buchi nelle giacche». In secondo luogo, Robespierre e altri rivoluzionari del Comitato di Salute Pubblica desiderano dare la morte attraverso la ghigliottina ai nemici della ragione e della libertà, o più in generale a quanti si oppongono e non collaborano al sacro imporsi della “rivoluzione”. Se volessimo trarre una conclusione generale, potremmo dire che anche questi personaggi aspirano alla stessa pace cui ambisce Danton, dunque partecipano della medesima stanchezza. Infatti, il popolo uccide per trovare requie alla fame e al freddo, mentre i rivoluzionari per rendere sicuro il potere politico finora acquisito e cancellare tutti i movimenti di opposizione che lo inquietano. Come pachidermi estenuati dalla fatica, essi intendono schiacciare con le loro pesanti zampe coloro che li privano dell’agognato riposo.
Il problema filosofico su cui si impernia il Dantons Tod consiste allora, ammesso che quanto è stato detto finora sia vero, solo in questo: nella ricerca della pace che le circostanze storiche concrete hanno tolto a ogni essere umano. E il dramma che muove l’azione coincide con un conflitto tra due diversi modi di cercare la quiete. Se il popolo e Robespierre ritengono che il mezzo sia l’eliminazione di alcuni elementi di disturbo, Danton e i “moderati” la vogliono trovare in loro stessi, senza ghigliottinare nessuno. La sconfitta della linea pacifista è dettata dal fatto che le manca il potere e la forza per convincere la linea estremista a desistere dalla violenza omicida, così da abbandonarsi a una tranquilla convivenza, dove ciascuno fa “ciò che gli piace” e non si arroga il falso diritto di imporre con spargimenti di sangue la propria idea di benessere.
Si aprono a questo punto due possibili diramazioni d’indagine. Da un lato, si potrebbe insistere di più sull’analisi della qualità del desiderio di morte, che implicitamente è stata descritta come una pulsione erotica. Questa pista di ricerca si concentrerebbe sulla relazione dei personaggi maschili con quelli femminili, specificamente nel rapporto di Danton con le prostitute come Marion. Il personaggio vede nel sesso l’esperienza che, da vivi, più si avvicina alla morte. La quiete dopo l’amplesso è un autentico sostituto del riposo goduto nella tomba. Dall’altro, si potrebbe anche esaminare meglio il conflitto tra la linea violenta del popolo di Robespierre e quella pacifica o moderata di Danton, spiegando le cause della sua origine e dei suoi sviluppi. In tal sede, ambisco a percorrere in maniera sintetica la seconda pista d’indagine.
La ragione principale del sorgere del conflitto violento si ricava da un’importante battuta di Danton, contenuta nel II atto. Il personaggio ricorda con angoscia nel cuore della notte di aver cercato a suo tempo anche lui, come Robespierre, di realizzare la rivoluzione e la pace comune attraverso un massacro: quello dei partigiani del re, nel settembre 1792. Nel giustificare questa sua condotta, egli asserisce che era quanto si “doveva” fare, perché non c’erano alternative. E subito dopo, in un impeto di lucidità, sconfessa questa giustificazione con le seguenti parole:
Deve, deve, ecco, era questo «deve»! Chi maledirà la mano sulla quale è caduta la maledizione del «deve»? Chi ha decretato questo «deve»? Cos’è ciò che in noi mente, puttaneggia, ruba e assassina? Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute; non siamo niente, per noi stessi, niente! Le spade con le quali combattono gli spiriti; solo non si vedono le mani, come nella favola.
Lungi dall’esprimere una metafora, questa battuta condensa l’intera concezione esistenziale di Büchner. Le parole di Danton coincidono infatti quasi alla perfezione con quelle che il drammaturgo scriveva alla fidanzata nella lettera spedita alla fidanzata nel novembre 1833, ossia nella famosa lettera che gli studiosi hanno ribattezzato Fatalismusbrief [Epistola sul fatalismo]. Qui Büchner ribadiva appunto che in ogni uomo si annida una pulsione interiore a sopraffare gli altri e che muove l’intero decorso storico. Inoltre, il dettaglio di Danton sulle «marionette tenute al filo da forze sconosciute» ha un preciso parallelo con un altro passaggio della Fatalismusbrief, che poco prima di richiamare il “deve” sottolinea che, in questo contesto di violenza inevitabile tra i rapporti umani, anche il genio gioca una «farsa da marionette» e i più sono come «ronzini da parata… della storia». La battuta di Danton è dunque forse il passaggio in cui si fa esplicita la voce dell’autore, il quale segnala al lettore o allo spettatore che gli uomini recitano in una commedia in cui i ruoli sono già stati assegnati, senza esserne in genere coscienti. La prospettiva trova ulteriori elementi testuali a favore nella battuta pronunciata da Danton all’inizio del II atto («noi non abbiamo fatto la rivoluzione, ma la rivoluzione ha fatto noi»), o nel monologo di Robespierre posto verso la fine del primo atto, dove il personaggio equipara, in un altro raro momento di lucidità, il suo proposito di imporre la pace attraverso il Terrore e la ghigliottina alla condotta di un sonnambulo inconsapevole.
Partendo da questa concezione esistenziale, si può perciò precisare il quadro del conflitto drammatico che accade nel Dantons Tod come segue: ogni uomo aspira alla quiete, ma ciascuno in modi diversi e incompatibili. I violenti come Robespierre lo fanno recitando passivamente la commedia violenta e fatale allestita dalla storia, credendo che gli spargimenti di sangue siano mezzi necessari in cui l’accadimento storico raggiungerà il suo compimento e sviluppo, offrendo a chi vivrà ancora la pace perpetua. Ciò emerge in particolar modo dal discorso di Saint Just, precisamente nel punti in cui è chiesto all’uditorio se non sia «comprensibile e naturale che, in un periodo in cui il passo della storia è più veloce, maggiore sia il numero di coloro a cui viene a mancare il respiro?». Invece, i moderati o pacifici come Danton non credono più in un compimento escatologico del buon decorso storico e decidono perciò di non assecondarlo più, di rinunciare alla vita pur di uscire di scena dal dramma. In un certo senso, questo conflitto comporta la rappresentazione di un contrasto tra una “falsa” e una “vera” rivoluzione. L’una mantiene lo stato di violenza connaturato alla storia, perché lo asseconda e lo giustifica, l’altra prova a emanciparsene, opponendosi o non collaborando per quanto è possibile alla forza oscura che in ciascuno di noi puttaneggia, ruba, assassina.
Si presenta a questo punto un problema, se non un’autentica contraddizione in termini. Se la commedia della storia è già scritta, come può Danton decidere di non recitarla? Essendo un burattino non meno inerme di altri, egli – che lo voglia o no – la rappresenterà comunque. La medesima inconsistenza si affaccia, più in generale, nel pensiero politico di Büchner. Infatti, come può questi accettare una concezione fatalistica della realtà e, nello stesso tempo, predicare altrove la possibilità del darsi della rivoluzione, per esempio nella lettera altrettanto famosa del 5 aprile 1833, in cui scrive ai genitori che si opporrà ovunque sia possibile, con la parola e con l’azione, alla minoranza che opprime il popolo? Entrambe le questioni possono essere risolte supponendo che vi siano almeno due modi possibili di interpretare il dramma, cioè di farsi trascinare dal fato. Se lo si fa accettandolo e assecondandolo in toto, il risultato sarà una recita meccanica, senza vita e che produce solo malessere. Si dà perciò solo lo “spettacolo” di una falsa rivoluzione. Se invece si tenta di andare disperatamente controcorrente e di produrre “qui e ora” la pace che tutti agogniamo, il risultato sarà la rappresentazione di un essere umano sconfitto dal fato, in cui almeno emergono qualità rare come la dignità, la credenza che va tutelata la vita nelle sue varie forme (dice Lucile, sul finire del Dantons Tod: «Ma tutto deve poter vivere, tutto, quel moscerino là, quell’uccello»), e la capacità di immaginare una società pacifica impossibile, ma bella. Si dà perciò il “teatro” della vera rivoluzione, che è abbattuto dalla violenza nell’istante stesso in cui si affaccia sul mondo.
I più savi e prudenti della specie umana potrebbero trovare assurda la scelta di un volontario fallimento, che nel caso di Danton coincide pure con un volontario suicidio. Meglio sarebbe salire sul carro dei vincitori e abituare lo sguardo al sangue, cioè strappare quanto più si può agli altri e preservare la propria vita, piuttosto che gettarla via per inseguire un ideale impossibile. A ben vedere, però, lo stesso Büchner allude in più punti nel Dantons Tod al fatto che i vantaggi della vocazione al fallimento sono maggiori degli svantaggi. Mi limito solo a citarne due.
Per un verso, questa scelta offre una vita più intensa, seppure più breve, rispetto a quella lunga e opulenta garantita dalla condotta improntata a violenza. Infatti, quest’ultima verrebbe contaminata dal tormento interiore per il sangue innocente versato, che – se non si è divenuti del tutto pervertiti o corrotti – non potrà che affacciarsi prima o poi alla coscienza. Il punto è mostrato da Danton nel monologo che lo induce a rinunciare alla fuga da Parigi e sottoporsi al processo rivoluzionario che lo porterà alla tomba, che è dettato dalla consapevolezza che vivere ancora sarebbe una condizione peggiore. La memoria dei massacri di settembre lo angustierebbe fino al termine dei suoi giorni in esilio, sicché il suo vivere sarebbe non tanto un vivere male, quanto un morire allungato nel tempo. Dice Danton: «Il luogo dev’essere sicuro, per la mia memoria, ma non per me; a me dà più sicurezza la tomba, almeno mi procura l’oblio. Uccide la mia memoria. Ma laggiù invece vive la mia memoria e uccide me».
Per un altro verso, il volontario fallimento regala a chi la asseconda una forte carica poetica. Dal momento in cui Danton e gli altri “moderati” vengono incarcerati, i loro discorsi acquistano lucidità e bellezza, toccando temi alti e impegnativi come l’esistenza di Dio, il problema della presenza del male nel mondo, il rapporto tra essere e nulla, il conflitto tra fato e libertà. Nel caso di Lucile e Camille, fa persino breccia una sorta di benevola follia che porta loro a immaginare un bambino bellissimo e felice, da cullare e baciare. A fronte della pochezza di personaggi come Collot, Barère e Billaud, che nella tranquillità delle loro case formulano solo propositi e pensieri meschini, tutto ciò ap-pare di colpo ampiamente desiderabile. Come a dire: se tali sono i vincitori, meglio marcire con i perdenti, che trasfigurati dal dolore pronunciando discorsi sublimi.
La nostra situazione non è affatto dissimile a quella rappresentata nel Dantons Tod. Come Danton, noi siamo stanchi e forse vecchi nello spirito, oppressi da una minoranza corrotta di potenti mossi solo da gretti interessi di parte, succubi di accadimenti fatali e che non si possono arrestare. Anche noi insomma manchiamo del riposo necessario. E in sua assenza, arranchiamo e usiamo violenza su quanti pensiamo ci disturbino, come i migranti, anch’essi in cerca di un po’ di pace. Questa situazione non sembra più essere mutabile: quasi certamente soccomberemo alla macchina infernale in cui, esat-tamente come nel mulino del tribunale della rivoluzione di cui parla Danton, le membra vengono «tòrte via lentamente, sistematicamente dalla fredda forza fisica». Ma se Büchner ha profetizzato in un certo qual modo il disastro, egli forse ha capito anche il potenziale rimedio. Se la distruzione di tutto è fatale e inevitabile, quel che ci resta da fare è recitare al meglio la parte di chi non si arrende e verrà comunque annientato, ricavando almeno i vantaggi di cui si è letto. La ribellione non sarà efficace, ma costituirà un altissimo momento estetico. In altri termini, la bellezza non salverà il mondo dalla violenza e dall’inquietudine, però certo la nostra coscienza e il nostro bisogno di poesia. Nella catastrofe finale, gli uomini e le donne mosse ancora dall’ideale di un impossibile rinnovamento offriranno uno splendido momento di teatro.
Enrico Piergiacomi
Leggi anche la recensione di Graziano Graziani dello spettacolo diretto da Mario Martone
Ho letto con vivo interesse e con piacere questo articolo. L’analisi è ben condotta e fornisce spunti di riflessione. Mi permetto una piccola osservazione sulla chiusa perché il parallelo finale non mi sembra calzare da un punto di vista storico-politico. Avrei forse sviluppato diversamente, ma la recensione raggiunge il suo scopo: fa venir voglia si scoprire Büchner!
Contrapporre un Danton pacifista a un Robespierre violento è un errore storico notevole o un catechismo per bambini. Buchner conosceva bene la storia.