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Intervista a Tomi Janežič. A più tardi, Čechov

In merito allo spettacolo Zio Vanja previsto all’interno del Festival Fabbrica Europa e attualmente annullato, intervista al regista Tomi Janežič 

Foto Gorazd Kavčič
Foto Gorazd Kavčič

Tomi Janežič e il suo attesissimo Zio Vanja, la nuova produzione del Teatro Nazionale della Toscana con attori italiani (Michele Sinisi, Savino Paparella, Elisa Cuppini, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Michele Cipriani, Silvia Tufano e Gemma Carbone) è, come è noto, tra le vittime più illustri di questa primavera “invernale” del nostro scontento teatrale: finito sotto la scure di tagli/riassestamenti/errori di budget, bloccata – pare – dal consiglio di amministrazione per mancanza di fondi, è stato definitivamente escluso dalla programmazione del Festival Fabbrica Europa attualmente in corso. Come precisa il presidente del Teatro Nazionale di Toscana Marco Giorgetti, non si tratta però di una cancellazione definitiva, bensì di uno slittamento al 2017; nondimeno accogliamo il dubbio di Andrea Porcheddu sul fatto che “il 2017 è lungo, e questi annunci, in teatro, di solito equivalgono a una cancellazione di fatto”.
Abbiamo contattato Tomi Janežič, che ha appena avuto la notizia di ben tre nomination al Premio HEDDA (il massimo riconoscimento del teatro norvegese), per chiedergli come siano andate le cose e per parlarci di questo nuovo lavoro su Čechov dopo lo strabiliantre Galeb presentato due anni fa proprio a Fabbrica Europa.
Era dispiaciuto. Di più, era preoccupato della generale deriva del teatro verso una pericolosa “economia di mercato”.

Come hai impostato il tuo lavoro su Zio Vanja e che tipo di lavoro hai creato con gli attori italiani sia sul piano della riscrittura che sul piano scenico e interpretativo?

L’idea era di leggere e affrontare Čechov come fosse un autore italiano. Di connetterlo all’espressione, al temperamento, alla plasticità comunicativa italiana. Di andare oltre certi pregiudizi su come si dovrebbe allestire Čechov. Di scoprire la natura spiritosa di Čechov, la sua origine e gli archetipi che connettono Zio Vanja a una tradizione commediografica. Ho tentato di affrontare con gli attori anche un processo intensivo a livello performativo, di aprire nuove possibilità per stare, fare e comunicare in scena. Di penetrare anche nell’irrazionalità, nelle fantasie e nelle associazioni mentali che aprirebbero questa storia – e il nostro rapporto/confronto con Čechov – a diversi livelli. Abbiamo provato a parlare, tramite questa storia, anche di noi stessi e delle nostre difficoltà, dei disagi artistici e quotidiani, aprendoci dunque a tantissimi temi molto attuali che esistono in questo testo. Il tema del lavoro è solo un esempio. Perché, per chi, per che cosa lavoriamo? Il tema della realizzazione tramite il lavoro, il tema del sfruttamento attraverso il lavoro, il tema del lavorare o del non dover lavorare per sopravvivere, il tema del lavoro come via per scappare dalla realtà. Infatti, quando Vanja si ferma per confrontarsi con la propria vita e smette di lavorare, accade un’apocalisse (inter)personale. Alla fine ritorna a lavorare. Probabilmente per non impazzire. Ma ci sono altri temi e altre domande altrettanto rilevanti e interessanti. Non solo a livello di storia, ma anche a livello di drammaturgia. Ci sono delle tracce brechtiane – se si può dire – in questo testo di Čechov. I personaggi parlano spessissimo in terza persona, espongono l’analisi della propria esistenza e hanno una consapevolezza che da un certo punto di vista, non appartiene alla scrittura realistica.

Che differenza c’è tra l’approccio teatrale degli attori con cui hai lavorato con il tuo teatro, il Teatro Nazionale Serbo, e quello degli attori italiani?

Da un certo punto di vista ci sono differenze, da un altro punto di vista le sfide sono spesso simili. Sicuramente c’è una differenza nel training degli attori serbi e italiani. La tradizione stanislavskiana – per esempio – in Serbia è molto forte e connessa con un temperamento specifico e il lavoro cinematografico ha dato certi standard attoriali: che cosa significa comunicare veramente, avere la capacità di essere e di pensare in scena e di non fare finta di pensare, l’autenticità delle emozioni vissute in scena, etc.
La specificità del lavoro che ho fatto per diversi anni con gli attori in Slovenia, Croazia e in Serbia riguarda il tempo. Ci vuole tempo per far cambiare certe cose, per far funzionare certe qualità performative. Ed è quindi per questo che ho proposto un processo a lungo termine anche in Italia. Ma dall’altra parte, incontrando e lavorando con gli attori in Russia, Norvegia, Portogallo, Italia, Romania, le domande e le necessità degli attori nei diversi paesi sono molto simili o forse assolutamente le stesse. Le differenze esistono a livello culturale, a livello di “convenzioni” culturali; non direi neanche artistiche, perché parlo di qualcosa che si stabilisce come culturalmente e artisticamente “normale” o “usuale” o “accettabile” in un certo paese e che forse per qualcuno può avere un certo charme ma che artisticamente non può soddisfare. Ci possono essere differenze a livello di temperamento, di particolare cultura, di espressione. Ma l’arte che colpisce forse non ha a che vedere con queste “convenzioni” perché tocca qualcosa di molto più profondo e umano. Moltissimi artisti in diversi paesi pensano al di là delle proprie tecniche e tradizioni e di quello che è tipico nel modo in cui si fa teatro o cinema nel loro Paese e cercano ognuno a proprio modo l’essenza della loro arte e diverse prospettive per vederla, capirla e farla. Cercano così vie per fare in scena qualcosa di umanamente e artisticamente significativo che possa essere percepito e apprezzato anche da uno straniero non solo per lo “charme”, ma perché tocca qualcosa di umano. O forse questa è solo una definizione dell’arte dell’attore.
L’incontro e il lavoro con gli attori italiani è stato molto prezioso per me. Penso che abbiamo fatto del lavoro intenso e onesto. E sono felice di poterlo continuare.

Non possiamo non chiederti che cosa è successo in relazione alla chiusura temporanea della produzione che verrà ripresa il prossimo anno, proprio a pochi giorni dal debutto al Festival: tu avevi avuto informazioni sul fatto che la produzione poteva essere “a rischio”?

Non avevo delle informazioni a tal proposito e nessuno di noi si immaginava che sarebbe potuto accadere una cosa simile. Da quanto ho capito, la chiusura temporanea della produzione non aveva niente a che vedere con la produzione e il budget del nostro spettacolo ma con il bilancio di tutto il Teatro Nazionale della Toscana. Non conosco i dettagli. In linea generale si conoscevano le difficoltà (che non sono niente di insolito), ma comunque il progetto di Zio Vanja era stato confermato diverse volte, a febbraio penso anche dal consiglio di amministrazione. E c’era un lavoro già iniziato con gli attori a settembre, avevamo svolto le prove anche a ottobre o novembre e per quasi tutto il mese di febbraio e recentemente in aprile. Le preparazioni per il lavoro sono cominciate più di un anno fa quando sono venuto in Italia per incontrare e scegliere gli attori. La produzione era definita precisamente. E quindi è stato uno shock per tutti. Non solo per gli attori e i collaboratori di questo spettacolo ma penso per tutti nel teatro, almeno a Pontedera. Tra l’altro le persone del Teatro Era (Roberto Bacci, Luca Dini e il loro team) con le quali lavoravo e che mi hanno invitato a fare questo lavoro ancora prima che la struttura diventasse Teatro Nazionale,  sono state attente a ogni passo di questo processo, assolutamente professionali e non solo, hanno veramente fatto in modo che potessi sentirmi a casa lavorando in Italia e mi sembra che abbiano fatto veramente tutto per far nascere questo spettacolo e che lo stiano facendo ancora. Suppongo che tutti si siano trovati in difficoltà o – se si può dire – a disagio riguardo a tutta la faccenda. Ma la cosa probabilmente è molto piu complicata. Comunque, voglio credere che il teatro di Pontedera troverà modo di continuare la sua missione. Lo ha fatto per più di quarant’anni ed è una missione importante.

Qual è stato il tuo stato d’animo, e come hai vissuto con i tuoi attori questa notizia? Hai pensato di andare in scena ugualmente? Avete pensato a una protesta più rumorosa?
Gli attori hanno reagito, penso, due volte, scrivendo una lettera; c’era la possibilità di trovare una solidarietà internazionale, sicuramente. Poi è arrivata la proposta di continuare l’anno prossimo.
La notizia ha toccato moltissimo le vite degli attori e dei collaboratori, che si sono trovati senza lavoro da un giorno all’altro e a riorganizzare le loro vite e relativi progetti.
Naturalmente, pensavo a delle possibilità per continuare il lavoro. Semplicemente, non si può tagliare e fermare un processo creativo. Deve portare a una creazione… E lo farà.
Non si poteva andare in scena perché non c’era la possibilità di finalizzare lo spettacolo. Si andrà in scena l’anno prossimo.

La notizia non è stata data subito e anche le motivazioni non sono a oggi chiarissime; i giornali e la critica teatrale si sono chiesti che cosa ci fosse dietro a tutto questo, e alcuni attori hanno esposto pubblicamente le proprie lamentele. Come puoi commentare e soprattutto, ti era mai capitato di trovarti in una situazione del genere?
Sicuramente è una cosa che non mi è mai successa. Artisticamente sono cresciuto con la filosofia che niente è impossibile in teatro. Quindi una cancellazione dello spettacolo per delle ragioni di produzione era assolutamente inimmaginabile. Non conosco il contesto di tutta la storia. E non ho seguito che cosa è stato scritto o detto sul argomento. È quindi un po’ difficile per me commentare. Ma per me è sicuramente un unicum.

Come saprai la cultura in Italia è al collasso e il teatro è in piena crisi: chiudono festival, non ci sono soldi per riparare strutture che ospitavano palcoscenici di Festival, si cambiano sedi, si diminuisce il budget, da Venezia a Castiglioncello alla Sicilia. Tu ti sei trovato nel pieno della tempesta. Lavorando con molte realtà teatrali internazionali anche molto floride, puoi fare qualche paragone significativo?

Anni fa non si pensava che l’Europa – quando si parla di arte e cultura – sarebbe potuta diventare come gli Stati Uniti. Ma oggi sempre di più questo sta diventendo una realtà. È un’ideologia importata. Che si sparge come uno tsunami. Naturalmente, parlo sopratutto di un’ideologia economica e degli interessi di imprese globali, della privatizzazione. Ho l’impressione che l’opinione pubblica sia stata manipolata a tal punto che moltissima gente non capisce perché ci dovrebbero essere delle scuole, delle università, degli ospedali o dei teatri pubblici. Non posso non interpretare quello che tu descrivi se non come un fenomeno che succede anche in altri paesi europei. La domanda è: “Che cosa faranno, come risponderanno gli artisti?”.

Anna Maria Monteverdi

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Anna Maria Monteverdi
Anna Maria Monteverdi
Esperta di Digital Performance, è Professoressa Associata all’Università Statale di Milano e docente di Storia del Teatro e Drammaturgia multimediale. È fondatrice e direttrice della rivista accademica di fascia A Connessioni remote dedicata a Arte, Teatro tecnologico e Artivismo. Ultimi volumi pubblicati: per la MIlano University Press due volumi su Giacomo Verde (2022 e 2023); per Dino Audino Scenografe.Storia della scenografia al femminile dalle avanguardie a oggi (2022) e Leggere uno spettacolo multimediale (2020); Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi, 2018). È stata curatrice della mostra Giacomo Verde. Liberare Arte da Artisti (Sp, Camec, 2022).

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