Altre Velocità ha organizzato a Bologna un convegno sul ruolo dello spettatore dal titolo Crescere nell’assurdo, primo appuntamento di un progetto che si vorrebbe itinerante. Una riflessione scaturita dalla giornata di studi
Se il ruolo che ciascuno di noi ricopre si sta sempre più gradualmente avvicinando a quello dell’attore, ovvero colui che antropologicamente agisce e quindi produce e poi consuma, quali sono gli spettatori e sopratutto cosa stanno guardando? Le azioni che compiamo all’interno della società e la loro incidenza su di essa ci restituiscono l’impressione di un’onnipotenza che è soltanto in minima parte “democratica”. Nell’illusione di poter esprimere liberamente giudizi, di avere la possibilità di dire la nostra condividendola all’istante con il mondo esterno, dipendiamo dal riscontro o, per meglio dire, dal verdetto autoritario che l’altro esercita sul nostro Io. La spinta partecipativa ai contesti del reale si impone nella sua totalità e per tale evidenza è indispensabile poter tornare alla stasi riflessiva, alla posa da osservatore, imparando, da capo, a Crescere spettatori. Questo il nome del progetto che dallo scorso anno il gruppo di Altre Velocità sta sviluppando con gli studenti e le studentesse delle scuole superiori attraverso laboratori, incontri, inchieste, monitoraggi e pubblicazioni. Proprio da questa cellula rivolta alla formazione è nata l’idea degli incontri pubblici di Crescere nell’assurdo – citando Growing Up Absurd di Paul Goodman, testo tra i capisaldi del pensiero educativo degli anni Sessanta – inaugurati con il primo appuntamento lo scorso fine settimana nella città di Bologna.
Partendo proprio dalla conclusione dei lavori svoltisi all’interno della Sala Tassinari di Palazzo D’Accursio cercheremo di restituire la temperatura di una fitta giornata di studio e riflessione, iniziando proprio dalle finali dichiarazioni dello scrittore Vittorio Giacopini su cosa voglia dire, oggi più che mai, essere pubblico e sul senso che questa definizione assume nell’orizzonte della formazione. «Viviamo in una società che dà scarsa autonomia all’identità personale, non si riesce più ad attivare una vera controcultura, un’arte che sia davvero critica». Una con-fusione di pratiche che tra le sue conseguenze più prevedibili annovera l’impossibilità di riuscire ancora a distinguere le categorie (semmai potremmo definirle tali) di arte, spettacolo e intrattenimento. Come ha sottolineato anche la critica e ricercatrice Roberta Ferraresi «il teatro è strumento per il suo valore d’uso e non più per quello di scambio». Il paradigma è mutato e proprio da una tale asserzione è indispensabile poter partire per interrogarci collettivamente sul ruolo del nostro mestiere; iniziando proprio col definirlo “lavoro” per poter ribadire una posizione politicamente attiva e necessaria. Urge dunque un ritorno, formato e consapevole, alla stasi riflessiva della seduta. La rottura dell’isolamento è stato il tema principe dell’intervento “avere/essere pubblico” del docente Giovanni Boccia Artieri, il quale ha ricordato come negli USA si stia iniziando a progettare sale cinematografiche in cui poter lasciare accesi gli smartphone per rendere normale una pratica di partecipazione condivisa che in alcuni contesti è severamente vietata. La parola d’ordine è infatti in between, «all’insegna della creazione, circolazione, connessione e collaborazione, ovvero di quelle competenze digitali utili a mettere in circolo la propria quotidianità». Il paradosso inoltre, se si estende e estremizza l’osservazione delle dinamiche social – definite dallo stesso Boccia Artieri come strutture reticolari decentrate – è che i giovani sono sin da subito “avvicinati” ai dispositivi artistici nella costruzione delle proprie narrazioni; sintomo però di una quasi acculturazione forzata a un contesto recepito dall’alto ma non criticamente partecipato. Come il fenomeno dei saggi di fine anno scolastico: «compulsione folle della nostra società che produce arte per relazionarsi ai ragazzi», mai definizione fu più calzante di questa indicata dal sociologo Stefano Laffi. Se anche nell’universo musicale «la musica d’avanguardia introietta già in partenza le logiche del mainstream e non ci sono più confini che la separano dall’underground» – come affermano i critici Antonio Ciarletta e Federico Savini di Blow Up – dovremmo tornare quindi a ricostituire quelle sponde che mantenendo la separazione palco/platea siano in grado di trovare nuova definizione ai campi d’azione dello sguardo. Nei percorsi laboratoriali condotti insieme ai giovani spettatori, risulta primario dunque smantellare dapprima quella tendenziosa familiarità ai dispositivi artistici con la quale sono cresciuti, spogliando l’arte dalla sua spettacolarizzazione e protagonismo per restituirle il valore di atto consapevole e quindi critico e non addomesticato; altro concetto chiave di cui si è parlato con la curatrice di Canicola Bambini, Liliana Cupido, a proposito delle troppo “buone” storie dei fumetti costruite per gratificare il bambino, senza spazio per l’ombra e il dubbio.
Acculturazione moderata di cui non avremmo affatto bisogno, a maggior ragione se, come ribadito dallo scrittore Giorgio Vasta in apertura del convegno, «da spettatori siamo in grado di percepire non solo quello che riguarda il testo ma anche di andare oltre a esso, accettando l’ambiguità e i processi di smascheramento e autosmascheramento». Pretendiamo di vedere tutto ma non sappiamo più guardare consapevolmente, in un continuo mutamento della percezione persona/personaggio. Tornare dunque a ridefinire il ruolo del pubblico ponendogli quelle tre domande che Maddalena Giovannelli, docente e critico teatrale per Stratagemmi, ha rivolto durante il suo intervento: mimesis/ esperienza; catarsi/fruizione; crisis/responsabilità. L’ultima risulta nodale: qual è la nostra responsabilità di spettatori? «Nella Grecia antica era il popolo a votare e esprimere giudizi sul valore drammatico delle opere, oggi questo ruolo appartiene alla critica». Assurdo è anche il racconto, paradossale nella sua natura attiva e contraria a uno stato di cose in via di sgretolamento, delle esperienze di formazione di Carlotta Tringali Amat Scuola di Platea, Tiziano Panici Dominio Pubblico, Bruna Gambarelli Compagnia Laminarie. Formare all’abitudine teatrale in contesti che rasentano la precarietà, insegnare ai ragazzi ad essere autonomi nella completa gestione di una stagione teatrale e «parlare dell’esperienza teatrale come qualcosa di unico che rimane durante una battaglia»; questi i temi trattati durante la tavola rotonda.
Ma lo spettatore di oggi vuole ancora combattere? Secondo Daniele Villa di Teatro Sotterraneo «l’adolescente è come un teatrante compulsivo che mescola tante identità»; tale natura, osservata anche da Maurizio Braucci nel raccontare del progetto teatrale Arrevuoto, sviluppa l’urgenza di ricostruire i filamenti di una trasmissione che si sta perdendo e sfibrando sempre più, fino ad annullare il corpo. Parola chiave che è mancata in questo convegno e che il coreografo Massimo Conti di Kinkaleri ha riportato al centro dell’attenzione attestandone l’assenza anche tra i ragazzi, i quali «non sanno sentirsi».
« […] Ad un mondo ordinato secondo leggi universalmente riconosciute si è sostituito un mondo fondato sull’ambiguità, sia nel senso negativo di una mancanza di centri d’orientamento, sia nel senso positivo di una continua rivedibilità dei valori e delle certezze». In questa instancabile revisione di percezioni così profeticamente indicata da Umberto Eco agli inizi degli anni Sessanta, sta tutta la nostra difficoltà di esserci e comunicare il nostro sguardo, cercando di mantenere viva e costante quella tensione a guardare nella bocca del lupo con curiosi e rinnovati stimoli; quelli a cui fa riferimento l’attrice Chiara Lagani della compagnia Fanny & Alexander quando afferma: «i bambini sono formatori di adulti, hanno la possibilità pura di entrare nel “come se” del teatro e guardarvi all’interno».
Lucia Medri
Crescere nell’assurdo
un progetto di Altre Velocità
A cura di Lorenzo Donati, Agnese Doria, Rodolfo Sacchettini, Serena Terranova
In collaborazione con Brochendors Brothers, Simone Caputo, Nicola Ruganti, Nicola Villa
Comunicazione e ufficio stampa Agnese Doria, Alex Giuzio
Immagine Mariachiara Di Giorgio
Grafica Pequod Cooperativa, Bologna
Organizzazione Francesca Bini, Serena Terranova con Alessandra Farneti, Cinzia Toscano
Si ringrazia Modo Infoshop, The Year Punk Broke, Elvira Venezia e Baumhaus