Teatro in video 31° appuntamento. L’Orlando furioso diretto da Luca Ronconi su testo di Edoardo Sanguineti, nella versione televisiva del 1975.
Amore e guerra, in un inseguimento su traiettorie parallele e tangenti, a incrociarsi senza trovarsi mai, in una rincorsa a polmoni chiusi lunga cinquecento anni. Un tempo enorme, così infinito da aver tramutato e stravolto il mondo, immane e fulmineo come un istante, come squarcio di tuono, bagattella di istanti al cospetto dell’eternità. Cinquecento anni fa gli Estensi di Ferrara già avevano avuto modo di appassionarsi alle vicende Orlando grazie a Luigi Pulci prima e Boiardo poi, il quale lo aveva lasciato abbastanza umano da divenire “innamorato” quando Ludovico Ariosto lo fece addirittura impazzire e iniziò a comporre il suo Orlando Furioso. Titolo più che noto, trama a dir poco articolata, pietra miliare della letteratura non solo italiana, quadratura del cerchio tra ciclo carolingio e bretone, ma anche esempio critico di approccio compositivo dove l’ironia è la chiave di volta con cui l’autore fende e ricuce i blocchi di un racconto cominciato ben prima di lui. L’amore forsennato del nostro eroe per la bella Angelica, in fuga e inseguita, contesa con Rinaldo, la salita di Astolfo sulla luna alla ricerca del suo senno in sella all’ippogrifo, conoscono una delle loro principali traduzioni performative nell’universo del cunto e dell’opera dei pupi siciliani. Ma nella sincronia dell’immortalità di Orlando si inscrive pure una data precisa, il 4 luglio 1969. All’interno della chiesa sconsacrata di San Niccolò, durante il Festival dei Due Mondi di Spoleto, un allora trentaseienne Luca Ronconi consegnava fragorosamente alle cronache teatrali il suo ormai celeberrimo Orlando Furioso, spettacolo su testo di Edoardo Sanguineti che rapidamente gli valse attenzione e favori internazionali, da lui stesso adattato per la televisione nel 1975 (e che qui proponiamo nella sua versione integrale di cinque ore). Facendo a brandelli la canonica separazione palco-platea, in un tempo in cui scontato non apparve affatto, il sistema scenico venne concepito come un insieme di piani d’azione dove i nodi centrali della storia di Orlando accadevano attraverso situazioni susseguitesi simultaneamente così da indurre lo spettatore, tramortito eppure trascinato, ad una scelta in grado di sottrarlo alla sua univoca, canonica “passività” di fruizione rappresentativa e narrativa. Alle estremità corte due palchi congiunti da americane con proiettori e inframmezzati da una serie di apparecchi e carri in costante movimento – a richiamare senza fatica la passione tutta barocca per le macchine sceniche – definiscono la reticolarità della dimensione rettangolare abitata da più di cinquanta interpreti in interazione quasi costante con il pubblico, tra straniamento e astrazione.
Amore e guerra, ancora, tensione ideale al sogno e materializzazione delle sue inclinazioni: non esiste alcuna profondità del desiderio che mai abbia raschiato il barile della follia, non riesce fuga alle carceri dell’oblio senza corteggiamento della finitezza umana. D’altronde sempiterno è solo l’afflato che si compie nel punto esatto di fusione tra il luccichio del metallo e la brillantezza delle chimere.
Marianna Masselli
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