Stephan Wolfert e la Bedlam Company approdano al Teatro Sala Uno durante la rassegna Shakespeare Re-loaded per il debutto europeo di Cry Havoc. Recensione
Disordine da stress post-traumatico è il termine medico usato per definire le conseguenze del reinserimento dei veterani di guerra all’interno del tessuto sociale. Sono 25 milioni i veterani attualmente censiti negli Stati Uniti; non tutti però hanno la “fortuna” di rientrare nel programma di assistenza fornito dallo United States Department of Veterans Affairs. Un percorso di riabilitazione soggetto a numerose critiche, e caratterizzato da uno stringente apparato burocratico che sembrerebbe lasciare solo il paziente; di questo e molto altro ci informa Stephan Wolfert, ex ufficiale medico di fanteria presso l’esercito americano, direttore artistico e fondatore del programma Shakespeare & Veterans, del Veterans Center for the Performing Arts e direttore del programma Outreach per Bedlam. La Bedlam Company – tra le più affermate a New York e in procinto di fare il suo ingresso a Broadway – è approdata a Roma perché inserita nel Festival Shakespeare Re-loaded (Roma-Verona 17-28 aprile) organizzato da Teatro Argot Studio e Casa Shakespeare, operante nel capoluogo veneto. Dopo una masterclass condotta presso Teatro Azione, Wolfert ha incontrato il pubblico al termine dello spettacolo Cry Havoc che ha debuttato in prima europea al Teatro Sala Uno. Proprio in quel limbo di solitudine e difficoltà in cui vengono abbandonati gli ex ufficiali di guerra al loro ritorno a casa, interviene il lavoro di Stephan; e proprio in quello stesso limbo Stephan ha conosciuto il Riccardo III, salvandosi. L’attore, nel rispondere a una domanda del pubblico, ha affermato che la sua pratica è del tutto lontana da quella del VA (Veterans Affairs), infatti non ha mai direttamente lavorato col dipartimento perché loro «stritolano» la persona. Non se ne prendono cura.
«Cry Havoc and let slip the dogs of war» è il verso tratto dal Giulio Cesare che dà il titolo all’emozionante monologo scritto e interpretato da Wolfert e diretto da Eric Tucker. In jeans e maglietta l’interprete articola una lunga narrazione, perfetta nell’equilibrio comico-drammatico dei toni, nelle digressioni storiche e nell’altrettanto precisa scrittura coreografica del testo, agìta con studio rigoroso della parola e della gestualità. In inglese, coi sottotoli in italiano proiettati su uno schermo che riempie e sovrasta la nuda scena, assistiamo al racconto delle varie esperienze di guerra e di ritorno alla “normalità” di molti dei veterani conosciuti durante le sessioni tenute da Wolfert. Il monologo procede in prima persona intervallato dai frammenti tratti dalle opere shakespeariane in cui intervengono, come voci di un passato attualizzato, Riccardo III, Coriolano, Enrico IV, Giulio Cesare e Macbeth. Loro, i generali che furono, parlano di quelli che sono, ora. Individui appartenenti nella maggior parte dei casi ai ceti bassi della società, si arruolano nelle forze armate all’età in cui si è più facilmente malleabili e vengono quindi “programmati” alla devastazione (“havoc”) e sguinzagliati per uccidere (“let slip the dogs of war”). Il trauma è sopravvivere, ritornare a casa, quando – come dice lo stesso Wolfert – non c’è nessun allenamento che sia in grado di attuare una «de-programmazione».
Secondo Dave Grossman, ex colonnello delle forze armate, ora specializzatosi in psicologia e nella disciplina da lui inventata Killology, solo il 10-15% dei militari vuole realmente uccidere quando spara a un “obiettivo”. La percentuale restante è addestrata psicologicamente e linguisticamente, in quanto nei reparti specializzati si segue una scrupolosa scelta dei termini da impiegare nell’impartire gli ordini. Per questo poi capita di tornare alla quotidianità di tutti i giorni con l’istinto, pronto a scattare al primo accenno di attacco, di aggredire chiunque, persino una bambina, perché ad essere annientato è il pensiero, la capacità di discernere. «I respond differently» dice Stephen in un’anafora crudele per spiegare la “diversa reazione” al presente, che come una scheggia di pensiero lo sballottola indietro nel tempo: «I respond differently» ai fuochi d’artificio del 4 di luglio (giorno odiato da molti ex militari); ai tappetini di gomma che sbattono a terra nelle palestre, agli aerei che passano con il loro rombo… Senza contare poi il dramma di una donna soldato su tre (statistica aberrante) che ha subito violenze dal suo stesso comandante e al quale deve continuare ad ubbidire durante tutto il periodo della missione.
«To die, to sleep; To sleep: perchance to dream». Dopo tanti combattenti, commuove la scelta di concludere il monologo con i versi di Amleto ricordando l’insonnia di molti, i quali riescono a malapena a dormire per due tre ore a notte perché impossibilitati a rimuovere dalla memoria quella guerra di 8 minuti e mezzo (tempo che indica la durata media di un blitz o attacco). Come affermava Roberto Herlitzka nell’incontro che ha aperto la rassegna, riflessione che ha poi colpito molto Stephan tanto da parlarne dopo lo spettacolo, è quell’ «ente e non ente» aristotelico diventato poi «essere o non essere» in Amleto a poter spiegare la complessità ambivalente e duplice del veterano di guerra. È proprio quella scelta di accettazione di essere uno e essere altro contemporaneamente a rendere il monologo Cry Havoc potente nella sua compromettente natura e nella consapevolezza, drammatica, di incarnare, ancora, entrambe le identità, di soldato e di attore: la spinta metodica e irregimentata all’uniformità e quella artisticamente sensibile, capace di allontanare molti dalla scelta finale compiuta da una media di 22 persone al giorno, che non superando il trauma decidono di togliersi la vita.
Lucia Medri
Teatro Sala Uno, Roma – aprile 2016
CRY HAVOC
Diretto da Eric Tucker
Scritto e interpretato da Stephan Wolfert
Con materiali di William Shakespeare
Produzione Bedlam