Songs of Lear, spettacolo della compagnia polacca Songs of the Goat Theatre diretta dal regista Grzegorz Bral, andato in scena in esclusiva nazionale al Teatro Petruzzelli di Bari. Recensione
Dieci sedie disposte in semicerchio, frontali alla platea, nere come il fondo su cui si distingue solo la barra dei sovratitoli (dall’inglese in italiano), peste come la tragedia, come gli abiti degli interpreti che entrano prendendo posto anticipati da una introduzione e affiancati da una postazione per un musicista con pochi strumenti: una chitarra, un armonio, una kora e un particolare tipo di cornamusa polacca (il sierszenti). A instradarci alla fruizione di Songs of Lear è Grzegorz Bral, fondatore e direttore della compagnia Songs of the Goat Theatre nata a metà degli anni Novanta, oggi salutata a livello internazionale come una delle maggiori realtà dell’avanguardia nordeuropea. In scena al Teatro Petruzzelli di Bari in esclusiva nazionale, il lavoro ha riscosso consensi in giro per il mondo da Broadway al Fringe Festival di Edimburgo.
Re Lear è tra i testi shakespeariani uno dei più noti, considerato da molti esemplare nel parallelismo di due intrecci, uno principale e l’altro secondario, fusi nel medesimo tessuto drammatico di cui sono peraltro giunte sino a noi più stesure. Contemporaneamente allo stagliarsi della contesa di Edmund ed Edgar – rispettivamente figlio illegittimo e legittimo del conte di Gloucester – il sovrano di Britannia decide di dividere il suo regno, di lì a poco destinato a dissolversi, tra le tre figlie Goneril, Regan e la prediletta Cordelia. Sarà questa, ancora nubile, a rifiutare di gareggiare con le altre in lusinghe richieste dal padre per stabilire i rispettivi domini e ad essere esiliata, prima di sposare il re di Francia e tornare solo alla vigilia della mesta fine del reame e dei protagonisti.
Nel procedere dello spettacolo si delineano solo alcuni momenti della storia, episodi o nodi particolari di sviluppo specifici del profilo dei personaggi, per fornire un affresco prospettico più che una pedissequa riproposizione, una decodificazione non stravolta eppure del tutto personale. È lo stesso Bral a spiegare come l’idea dello spettacolo possa in nuce essere rintracciata in una visita alla Tate Gallery di Londra, a partire da un dipinto postimpressionista di Kandinskij: alla fruizione viene ceduta infatti una struttura performativa complessa e stratificata, divisa per quadri congiunti da perni narrativi (forniti ancora dallo stesso regista), quasi degli scorci del Lear, «in cui i colori sono rappresentati dai suoni» e «in cui le corde vocali sono intonate con gli spettatori». In successione dodici canzoni su musiche di Jean-Claude Acquaviva e Maciej Rycly (in scena anche esecutore dal vivo), o per meglio dire dodici canti (In Paradisum, Canzone delle dicerie, Canzone del Buffone, il primo canto copto, il primo Lamento di Cordelia, Cavalieri senza re, il secondo canto copto Guerra, una composizione di Jean-Claude Acquaviva, La quinta voce degli angeli, il terzo canto copto Salmo 11, il secondo Lamento di Cordelia – Ritorno della regina e l’ultimo canto di “omaggio alla morte di un re e alla fine di un regno”) fungono da cornice e soggetto del quadro stesso, cioè punti di partenza e ossatura per le azioni che da essi sembrano svilupparsi e di cui al contempo sembrano essere il compimento, la realizzazione.
Le voci quindi, il loro utilizzo, l’impasto con l’ingresso sporadico di un tappeto strumentale mai troppo indiscreto, o con l’avvicendamento di alcuni versi, si configurano come il polo centrale, il viatico di conduzione attraverso le alternanze di ritmo, cadenzato con estrema perizia in modo da avvicendare picchi e discese, cali e crescendo in uno spettro di rifrazione mutua fra la concezione musicale di base e quella più strettamente drammatica. L’esperimento della voce, in questo caso quanto di più vicino al concetto di phonè, non si esaurisce tuttavia nel dominio verbale, non confina la comunicazione energetica tra palco e platea alla sola sfera orale, ma plasma il corpo intero – qui corpo fisico d’insieme e dei singoli nella stessa misura –, abita il suo movimento dalla stasi abbandonata della tristezza alla contrazione spastica della follia, dall’ostensione della disperazione al pianto di dolore, modellando l’espressione del volto, le contrazioni degli arti, la genuflessione figurata e fisica delle anatomie, le sequenze motorie più articolate implementate da uno, due o più interpreti insieme. Senza rinunciare all’estetica di impatto visivo, a una costruzione armonica ed efficace dell’immagine scenica, il suono diventa quindi – con ogni sua possibile articolazione – la matrice semantica centrale in riferimento alla quale la storia in una dimensione quasi atemporale e la sua traduzione espressiva si avverano, estremamente sacre e infinitamente umane si uniscono nell’abbraccio dell’evento performativo, rendendo non difficile l’accostamento di simile processo a un certo universo grotowskiano. Una coagulazione, un amalgama fatale, in un persistente rituale.
Marianna Masselli
Visto al Teatro Petruzzelli di Bari, aprile 2016
SONGS OF LEAR
musiche composte da Maciej Rycly e Jean-Claude Acquaviva
musiche eseguite dal vivo da Maciej Rycly, Rafael Kacper, Kacper Kuszewski
direttore musicale Kacper Kuszewski
con Monika Dryl, Gabriel Gawin, Julianna Bloodgood, Emma Bonnici, Kacper Kuszewski, Rafal Habel, Anu Salonen, Ilenia Cipollari, Lukaz Wojcik, Paolo Garghentino
regia Grzegorz Bral