Pilade di Pier Paolo Pasolini prodotto dal Teatro Vascello per la regia di Daniele Salvo, alla guida della compagnia I sognatori. Recensione
«Siamo fortemente convinti che la profonda crisi del nostro mondo culturale sia determinata soprattutto da un’assenza di idee, di necessità, di onestà e rigore intellettuale». Questo l’incipit delle note di regia firmate da Daniele Salvo e consegnate in mano agli spettatori del suo Pilade di Pier Paolo Pasolini, in scena al Teatro Vascello di Roma, che produce il lavoro, raccogliendo al debutto un folto pubblico. Un gruppo costituito interamente da giovani attori e attrici, I sognatori, attraversa un percorso laboratoriale e mette a punto uno spettacolo denso, lungo e complesso, dando fondo – va detto – a ogni energia.
L’ampio palco non ospita alcun oggetto di scena, alcun orpello scenografico; sul fondale è calato un velatino, usato di rado, solo per indicare un altrove. Ma l’intera azione si svolge in questa sorta di fredda agorà, invadendo in certi punti le prime file della platea, fratturando la frontalità della visione con qualche entrata dal fondo della sala. Coerente è il lavoro di Salvo, messo in opera da una falange di interpreti che non si risparmia e che dimostra ferme doti tecniche.
Alla fine dell‘Orestea, Oreste ed Elettra, con la complicità del mite amico Pilade, hanno vendicato il padre Agamennone uccidendo la madre Clitemnestra e l’amante Egisto. Oreste sconta il matricidio subendo la persecuzione delle Furie, finché è Atena in persona ad assolverlo. L’epilogo di Eschilo diviene l’antefatto della narrazione di Pasolini, che sposta il fuoco su Pilade, destinato a diventare simbolo di una sorta di resistenza laica alle lusinghe del divorante impero della Ragione. È in nome di essa che Oreste mette in piedi un regime apparentemente democratico, fondato su un’integrità proto-illuminista talmente tersa da riuscire a piegare la stessa natura punitiva delle Furie, alcune delle quali fuggiranno per diventare Eumenidi. Ma la Ragione di Atena è un culto che non considera il passato, che brucia la storia e tutti i suoi eroi; lei che «non conosce il ventre materno, né le perversioni che nascono dalla nostalgia» ha la spada rivolta a un futuro come «nuova storia», chissà poi quanto diversa dalla vecchia.
Il lavoro di Salvo sembra scorrere su due binari paralleli: quello orizzontale, che si occupa di gestire i corpi nello spazio; quello verticale, che afferra i versi di un poema ostico e verboso, altezzoso e colpevolmente anti-teatrale per spremerne significati simbolici e ambiguità. Gli scambi che incrociano questi due binari non sempre riescono, tuttavia, a produrre un effetto di reale coinvolgimento. Nonostante vada lodata nel complesso la tenacia e la preparazione della giovane compagnia, specialmente degli interpreti principali, il pubblico, numeroso, subisce l’attacco di una parola sì straordinariamente tornita, ma spesso cristallizzata dentro un lavoro registico che pone voce, gesto e prossemica in un rapporto di relazione troppo rigoroso, troppo freddo.
Non avendo a disposizione alcun altro elemento scenografico da considerare, la visione si concentra sui movimenti scenici, che tendono a una reiterazione schematica del contrasto protagonista / coro; allo stesso modo l’uso del corpo dei singoli attori appare inginocchiato a un altare di lirismo che non riesce a reggere la lunga durata. Pose plastiche, braccia tese verso l’orizzonte, mani tremanti insieme all’ugola, coloritura vocale (pur sapiente nell’esecuzione) che passa ripetutamente dall’urlo al sussurro; arti che collassano nei momenti di dolore o schiene che si rizzano al suono della battaglia sono segni che scavalcano la chiarezza del gesto e troppo spesso si fanno didascalia, contro le intenzioni della regia che aspirerebbe a una «recitazione antiretorica».
Non vuole avere spazio né peso, in righe come queste, una posizione personale di chi scrive riguardo alla necessità di abbandonare certi codici recitativi in funzione di altri, magari meno imbrigliati dal desiderio di cesellare ogni sillaba. Al di là dei gusti personali, il rischio è che un simile lavoro su voce e gesto finisca – forse anche a causa di un testo meno straordinario di quanto ci si aspetti – per soffocare certe intenzioni semantiche, per allontanare il ragionamento sul potere e sulla forma contemporanea dell’essere intellettuali, per schiacciarlo su una poesia declamata, monocorde e bidimensionale. Versi come questi sembrano chiamare una maggiore libertà; la solida preparazione di questi attori meriterebbe più spazio di manovra, più margini di rischio, più rispetto: sporcando l’estetica del canto si potrebbe forse afferrare la forma «segreta» e «obliqua» che la stessa regia dichiara di perseguire.
Sergio Lo Gatto
Teatro Vascello, Roma – Aprile 2016
PILADE
di Pier Paolo Pasolini
regia e drammaturgia Daniele Salvo
musiche Marco Podda
actor coach Melania Giglio
costumi Nika Campisi, Claudia Montanari
assistente alla regia Alessandro Gorgoni
si ringrazia Fabiana di Marco per la cortese collaborazione
Produzione La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello
Personaggi e interpreti
PILADE: Elio D’Alessandro
ORESTE: Marco Imparato
ELETTRA: Selene Gandini
ATENA: Silvia Pietta
SERVA DI ELETTRA / CORIFEA: Elena Aimone
CONTADINO / VECCHIO: Simone Ciampi
RAGAZZO: Michele Costabile
MESSAGGERO: Francesca Mària
SOLDATO: Simone Bobini
DONNA: Claudia Benassi
STRANIERO: Piero Grant
EUMENIDI: Elena Aimone, Sara Aprile, Claudia Benassi, Paola Giglio, Melania Fiore, Francesca Mària
CORO: Elena Aimone, Sara Aprile, Claudia Benassi, Simone Ciampi, Michele Costabile, Melania Fiore, Paola Giglio, Piero Grant, Francesca Mària, Sara Pallini