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Il Lear di Bacci e Geraci è un dramma della visione

Al Teatro Era Silvia Pasello è il Lear al femminile di Stefano Geraci e Roberto Bacci

foto ufficio stampa
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Il celebre «Guardare non è più un atto innocente», claim dell’edizione 2015 del Festival di Santarcangelo scritto da Romeo Castellucci, condensa con l’incisività di uno slogan la consapevolezza moderna del legame inestricabile tra osservazione e responsabilità. Lo spettatore — di una pièce teatrale così come di un telegiornale — ha ormai rinunciato da tempo all’antico e utopico sogno di quella passiva contemplazione con cui il naufrago dell’immagine di Hans Blumenberg assisteva dalla spiaggia alla furia oceanica. La violenza del reale si impone ormai smantellando le zone franche e abbattendo qualsiasi quarta parete, uniformando lo spazio in un unico, sanguinoso teatro di guerra: e l’innocenza perduta non garantisce più né salvezza né candore, trasformando così lo spettatore alternativamente in vittima degli eventi o in efferato carnefice.

È primariamente un dramma della visione il Lear di Roberto Bacci, prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana e presentato in prima nazionale al Teatro Era di Pontedera: una versione della tragedia shakespeariana che ne moltiplica le implicazioni legate al tema dello sguardo — del quale l’accecamento del Conte di Gloucester è l’episodio più rilevante — e innesta su di esse una riflessione sulla colpa e sulla responsabilità. Una lettura filosofica e psicoanalitica, questa, forse non originale e a tratti non sufficientemente approfondita, che tuttavia sembra raggiungere un esito scenico efficace ancorché troppo didascalico. La drammaturgia di Stefano Geraci e dello stesso Bacci asciuga gli originali cinque atti in un atto unico di due ore, riduce le vicende a quel nucleo di glaciale atrocità dove i raggiri di Goneril e Regan si riflettono nella bassezza con cui Edmund tradisce il fratellastro Edgar, ma soprattutto introduce un gruppo di corifei, cupi servi di scena che assommano i propri punti di vista a quelli degli spettatori in sala. Sono gli stessi interpreti dei protagonisti del dramma a celarsi dietro maschere anonime: muti, o chiamati a intermezzi nei quali intonano canti seicenteschi, essi dissolvono la finzione scenica recitata in quella soltanto osservata. In secondo piano rispetto all’azione principale, o ai lati del palcoscenico, questi testimoni prendono la parola con il gesto — fin troppo convenzionale nei suoi aspetti metaforici — del levarsi la maschera e del rifiutare con essa il facile compito dell’osservatore statico: e il continuo tramutarsi di questi silenziosi testimoni nel crudele Edmund (Tazio Torrini) o nel dolente Gloucester (Francesco Puleo), così come negli altri personaggi, chiama in causa la presunta irrilevanza etica dello sguardo. L’abbandono del ruolo privilegiato dello spettatore, e con esso di un atteggiamento “sociale” prima ancora che “teatrale”, non comporta più soltanto il coinvolgimento nelle cose del mondo, l’empatico identificarsi con le vittime del naufragio blumenberghiano, bensì una tragica e ineluttabile partecipazione a una crudele mattanza.

foto ufficio stampa
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È d’altra parte l’improvviso rifiuto di Lear a svolgere il proprio ruolo di sovrano, e la volontà di dividere il regno tra le figlie a seconda della capacità di ognuna di descrivere a parole l’amore che le lega al padre, a scatenare l’orgia di crudeltà che condurrà tutti i personaggi a un destino di morte. A incombere non è però una condanna divina, bensì un umanissimo fato intrecciato da mani di figlie e figli, come le ciocche di capelli che Caterina Simonelli, Silvia Tufano e Maria Bacci Pasello (rispettivamente Goneril, Regan e Cordelia) aggrovigliano all’inizio dello spettacolo. Anche l’impianto scenografico, creazione di Márcio Medina, è agito non dall’esterno ma dagli stessi interpreti: i sette sipari paralleli che attraversano il palcoscenico, mossi dagli attori, possono così rivelare improvvise prospettive e tagliare fasci di luce, in una modificazione progressiva dello spazio e in un continuo ostruirsi o aprirsi della visione che già Gae Aulenti scelse come cifra estetica nel Lear di Luca Ronconi. Soltanto Edgar, innocua creatura costretta dalle odiose falsità del fratello a fuggire dal padre e a fingersi un pazzo vagabondo, abita con lo stigma di una provvidenziale diversità questo territorio dove regna incontrastata la pericolosa fragilità dell’umano: e Savino Paparella, nudo e sporco, malmenato come un Cristo pagano, ci affascina con un linguaggio e una fisicità in cui convergono ferina brutalità e misticismo.

foto ufficio stampa
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Costretti a un’indicibile e speculare solitudine stanno il Fool di Michele Cipriani, menestrello che accoglie con il suo sorriso sornione il pubblico in sala, e soprattutto il Lear, qui interpretato da Silvia Pasello. Una donna: come già Giusi Merli in Re Lear o il passaggio delle generazioni di Gianfranco Pedullà, quel coacervo di rabbia e colpa, di cieca ottusità e tardiva redenzione che muove l’anziano sovrano sembra appannaggio della natura umana e non di un sesso specifico. Pasello crea un Lear di sottile e subdola ambiguità, oscillando egregiamente tra il lirismo di alcuni dialoghi con il Fool e la pazzia violenta e sciamanica che contraddistingue la scena della tempesta. «Guarda! Guarda! Guarda!»: per tre volte risuona l’urlo straziante del re di fronte al corpo senza vita della figlia Cordelia. Un invito a una testimonianza consapevole, a una presa di coscienza delle pieghe dell’animo umano, certo. Eppure a noi, silenziosi astanti privi anche del conforto protettivo di una maschera, risuona nelle orecchie piuttosto come un avvertimento: non c’è alcuna salvezza nella contemplazione dell’abisso.

Alessandro Iachino

Teatro Era, Pontedera ‑ aprile 2016

LEAR
di Stefano Geraci, Roberto Bacci
liberamente ispirato a William Shakespeare
regia Roberto Bacci
con Maria Bacci Pasello, Michele Cipriani, Savino Paparella, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Caterina Simonelli, Tazio Torrini, Silvia Tufano
assistente alla regia Francesco Puleo
progetto scene e costumi Márcio Medina
musiche originali Ares Tavolazzi
luci Valeria Foti, Stefano Franzoni
immagine Cristina Gardumi
foto Roberto Palermo
realizzazione costumi Fondazione Cerratelli
in collaborazione con il Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola
realizzazione scene Scenartek
consulenza musicale Emanuele Le Pera, Elias Nardi
consulenza storico-musicale Stefano Pogelli
studio registrazione musiche S.A.M. di Mirco Mencacci
allestimento Leonardo Bonechi
sarta Giulia Romolini
amministratrice di compagnia Caterina Botti
si ringrazia Biarnel Liuteria, Carlo Macchi, Chiara Occhini
produzione Fondazione Teatro della Toscana

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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