All’interno del festival Testimonianza ricerca azioni di Teatro Akropolis, il debutto di Enduring Freedom di Imre Thormann, tra i più grandi danzatori butō al mondo. Intervista
«Training on the train». Sul treno che porta da Genova Sestri Ponente a Genova Porta Principe, Imre Thormann danza sulla direttrice dei binari; restiamo in silenzio, in piedi davanti alle porte, uno fianco all’altro, con gli occhi puntati fuori ma senza vedere gli stabilimenti e le fabbriche di Fincantieri che dominano il porto, mentre ci onduliamo da un ginocchio all’altro per mantenerci in equilibrio senza tenerci. «È un’abitudine che ho fatto mia a Tokyo, così si massaggia il corpo e ci si allena» mi spiega mentre usciamo dalla stazione e cerchiamo un bar dove parlare un po’, in un inglese che ci fa trovare a metà strada prima di tornare, a Roma io, in Svizzera lui. «Il corpo è una sfera piena d’acqua nella quale le ossa nuotano», mi dice. Il suo corpo, la sera prima, ha preso altra forma, altra consistenza in Enduring Freedom, lo spettacolo di danza butō portato al festival dell’Akropolis Teatro per soli trenta spettatori: un uomo, la danza assolta da qualsiasi musica che non fosse quella delle ossa che colpiscono il pavimento di Villa Rossi Martini, la pelle nuda in mezzo ai neon della commozione, del riconoscimento, dello stupore.
Come sei arrivato all’incontro con il butō e com’è avvenuto il tuo incontro con il fondatore Kazuo Ōno?
Da sempre ho praticato molte arti marziali ma non ne amavo il succedersi di tecniche nei kata, così un giorno sono andato nella foresta in Svizzera dove sono nato, e senza sapere il perché mi sono spogliato nudo e ho iniziato a danzare, ad arrampicarmi sugli alberi. Avevo diciannove anni. Poi qualcuno mi mostrò un libro sul butō e in quelle foto vidi me stesso: così ho iniziato la mia ricerca. Kazuo Ōno l’ho visto per la prima volta ad Amsterdam mentre si esibiva con La Argentina, e dopo forse due o tre secondi, vedendolo fare un paio di passi sul palcoscenico, mi sono messo a piangere. Ho pensato “io voglio fare questo”. Così sono partito per il Giappone per incontrarlo.
Una disciplina artistica che unisce danza, teatro e improvvisazione, una filosofia, cos’è per te il butō?
Per me è la vita. Non credo in una creazione a tavolino, se voglio esprimere qualcosa ballando devo prima essere toccato da quel qualcosa, allora sì che si può iniziare la propria ricerca; solitamente gli uomini non vogliono vedere la parte oscura della propria vita, non vogliono vedere la malattia, il dolore, la morte, e li mettono da parte. Il butō prova ad accettare questa tenebra, a equilibrarla.
Che ricordi hai della formazione in Giappone, qual è stato il tuo rapporto con il Kazuo Ōno?
Ho iniziato il mio allenamento con lui nel 1990 e l’ho terminato nel 1997. Dopo sette anni non ricordava ancora il mio nome e le indicazioni che ha dato a me personalmente le posso contare sulle dita di una mano. Mi allenavo nel suo studio a Yokohama, tre volte a settimana per sole due ore. Durante la lezione, un’ora intera la passavamo a parlare: noi seduti sul pavimento con Kazuo Ōno che ci raccontava storie sulla sua vita quotidiana, su una tazza di the bevuta e un ricordo venutogli in mente; poi, dopo aver individuato un tema, ci diceva «ora ballate»; mentre suo figlio metteva la musica noi iniziavamo a ballare per la stanza fino a che lui ci fermava «no, non così» e ci parlava di nuovo per una decina di minuti, prima di dirci «try again, try harder». Ogni due o tre mesi ci mostrava per qualche minuto la sua danza, e questo era tutto: nessun commento, nessuna tecnica, posizione, forma, niente.
Quanto ha a che fare il disastro atomico del Giappone con il butō e con l’exploit degli artisti giapponesi?
In molti pensano che questa danza provenga da ciò che i giapponesi hanno visto durante e dopo l’esplosione della bomba atomica, ma non è così. Ciò che davvero ha influenzato la cultura nipponica è stata la guerra: per la prima volta nella sua intera storia il Giappone ne ha persa una, perché prima di allora non avevano mai combattuto con un nemico fuori dai propri confini. Sono rimasti chiusi per trecento anni, chiunque varcava il loro confine veniva ucciso. Quella sconfitta ha creato una specie di vuoto; da lì, in un mix di influenze, è nato il butō.
Un corpo nudo, sezionato, reinventato. Qual è la metamorfosi che cerchi?
Il mio primo maestro diceva «se pensi sempre di avere cinque dita, non riuscirai mai ad averne un sesto». Siamo noi a limitare noi stessi, viviamo arrivando “dal passato” e ogni nuovo problema pretendiamo di risolverlo con il passato, ma non è possibile. Dobbiamo dimenticare completamente noi stessi attraversando le situazioni e reinventandoci nel dialogo con queste, allora si che anche le ossa potranno scomporsi rispetto all’idea che noi ne abbiamo ed essere qualcosa di diverso rimettendosi assieme: troveremo in noi qualcosa di nuovo.
Nei tuoi workshop lavori su quelli che per te sono i principi che costituiscono la base del movimento: spirale, onda, gravità, emozione. Quali sono le differenze con la tecnica occidentale?
Piuttosto che cogito ergo sum – penso quindi sono – io direi, peso e quindi esisto: pesare, essere importanti, la gravità. Il movimento che attraversa il corpo, il parlare, invece sono onde. La spirale è in un fiore, è nel dna. Questo, per me, è la tecnica. Quando impari a danzare con uno stile occidentale, invece, spesso apprendi la tecnica come una forma, di fronte a uno specchio, dopo di che dalla tecnica prendi alcune di queste forme e componendole in diversi modi costruisci una coreografia. Io credo invece che un danzatore debba conoscere ciò che c’è dietro il movimento, il perché, cos’è quel gesto, come arriva dentro di te e come lo restituisci allo spazio attorno: da cosa ti stai lasciando toccare e qual è l’effetto che ti provoca, allora si, potrai costruire la tua personale danza connettendo le emozioni con il loro peso.
Durante la performance non guardi nessuno, il tremore del corpo è anche negli occhi. Dove sei in quei momenti?
Provo a toccare delle immagini. Le mie coreografie sono un’immagine dopo l’altra, io provo a diventare quell’immagine e il mio corpo semplicemente reagisce a quell’idea. Ma se è pieno di altro non può riempirsi; bisogna prima svuotarlo completamente per poi riempirlo con l’immaginazione, solo allora il tuo corpo prenderà quella forma.
Lo spettacolo Enduring Freedom da quale immagine arriva?
Quando George W. Bush chiamò l’operazione militare con la quale ha attaccò l’Afghanistan – Enduring Freedom – mi sono chiesto come fosse possibile fare una guerra per ottenere una libertà duratura. Ho iniziato a pensare molto a questa contraddizione, così tanto che alla fine mi sono trovato d’accordo con Bush: la morte è importante per una libertà duratura, chiaramente non nel modo in cui la stava seguendo lui, ma accettandola. Nel butō è si lavora con ciò che ti muove, che ti spinge o che ti trattiene perché ne hai paura, per trovare una risposta alla tua esistenza; solo così forse possiamo parlare di “enduring”, perché altrimenti è davvero strano associare la parola “duratura” a una vita che è di sua natura finita: Bush morirà, io morirò, tu morirai. Come è possibile cercare una libertà non finita? Allora, forse, enduring significa vita, e morte, e vita, e morte, ciclicamente.
Mi dicevi che il Butō è la risposta all’incontro tra Oriente ed Occidente.
Il Butō muove da un corpo arcaico e rurale e lo porta nel mondo di oggi governato dalle idee più concettuali di società e di arte. Questa è la risposta che dà il butō: abbiamo bisogno di entrambe queste sfere, e in dialogo tra loro. Da quando ho vissuto a Berlino ho smesso di vedere cosa mi passa vicino mentre cammino, mi concentro sul passo come se stessi danzando; nel butō il passo è qualcosa di molto importante: quando fai un passo lo fai nella vita ma è anche un passo che fai verso la morte. È questo il paradosso, e affrontando questo paradosso si può dar vita al butō.
Luca Lòtano
Villa Rossi Martini, Genova – aprile 2016
ENDURING FREEDOM
di e con Imre Thormann