Ripubblichiamo un articolo scritto per Conflict Zones Reviews, la webzine internazionale dell’Unione dei Teatri d’Europa che cerca di mappare il teatro europeo. Oggi a partire da Hiob, diretto da Lisa Nielebock e visto alla Schauspielhaus di Bochum.
Nel 1916 Joseph Roth decise di interrompere gli studi per unirsi all’esercito dell’Impero Asburgico sul Fronte orientale. Per la sua successiva carriera di scrittore, prendere parte al più grande e sanguinoso conflitto dell’era moderna non avrebbe significato soltanto essere testimone di un’umanità in guerra, ma della guerra che esplode nell’essere umano. Lo scrittore ebreo-austriaco una volta disse: “Es kommt nicht auf die Wirklichkeit an, sondern auf die innere Wahrheit” (Cioè che conta non è la realtà, ma la più profonda verità). È possibile guardare all’intero viaggio di Roth nella vita come a un’espressione di un tale radicale punto di vista, tanto che in gran parte dei suoi testi fatti reali e finzionali si mescolano indissolubilmente.
L’intensa lezione dal titolo Può una persona essere salvata? tenuta da Koen Tachelet – autore dell’adattamento del romanzo di Roth Hiob, del 1930 – ha attraversato alcune di queste tematiche, dando forma alla capacità dello scrittore di descrivere la desolazione di un’anima dilaniata. “A dieci chilometri dalle pallottole – ha detto Tachelet – Roth voleva sperimentare l’intensità, immergersi negli eventi”, afferrando “momenti atroci di terribile bellezza”. Hiob, il cui titolo proviene dal Giobbe biblico che Dio priva di tutti i beni e le gioie per metterne alla prova la fede, è però anche la storia di un esilio, tanto fisico quanto morale. Mendel Singer è un “uomo semplice”, un ebreo ortodosso timorato di Dio che insegna la Bibbia a dodici allievi in un piccolo villaggio della Russia zarista. La nascita di Menuchim, il suo quarto figlio affetto da epilessia e apparentemente incapace di comunicare, sarà il simbolo di un’incessante decadenza. Alla vigilia della guerra l’intera famiglia si trasferirà a New York lasciando a casa Menuchim. La fede di Mendel è messa alla prova da una serie di avversità, ma verrà ricompensata dall’inaspettato ritorno di Menuchim adulto, diventato un famoso compositore.
Come indicato da Tachelet, il fulcro dell’adattamento e della regia di Lisa Nielebock per la Schauspielhaus Bochum) sta nell’idea che lasciarsi alle spalle un paese, una vita o una famiglia equivale a perdere la propria identità. Morta la moglie Deborah, la figlia Mirjam impazzita, Mendel non è più in grado di identificare la propria stessa essenza di essere umano. Questa riflessione si connette immediatamente all’attuale situazione del flusso dei rifugiati verso l’Europa: “Oggi – continua Tachelet – non esiste una terra promessa, queste persone si muovono verso altri posti perché hanno già perso il proprio. Sono esseri umani in un perenne stato di limbo, la cui sicurezza sembra possibile soltanto attraverso separazione, segregazione, isolamento”. Ecco che le nostre paure si cristallizzano in una sorta di paralisi morale. Ed è quel che succede a Mendel/Giobbe una volta realizzato che deve assumersi la responsabilità del collasso della propria famiglia e dei suoi sogni. I sette attori rimangono sempre in scena, intrappolati nella scenografia disegnata da Oliver Helf come una spigolosa scatola di legno senza vie di fuga; quando Deborah muore si limita a sedersi tranquilla a un angolo del proscenio. L’intero viaggio dei personaggi sulla via della rovina è così visibile dall’inizio alla fine: il gruppo attraversa il palco richiamando i movimenti oscillatori della risacca in una sorta di esilio senza fine. Michael Schütz dà forma a un brillante e potente Mendel, incarnando l’essenza tragica del personaggio senza rinunciare all’ironia e Jana Schulz trasforma Menuchim in una creatura ambigua a metà tra il fantasma del passato di Mendel e un angelo custode del suo futuro.
Nel momento esatto in cui Mendel decide di lasciare la Russia per l’America comincia a sentire la nostalgia della “terra natia interna” alla quale appartiene; non c’è terra promessa perché non c’è presente: il passato è stato sepolto sotto l’aspettativa di un futuro. E Mendel è intrappolato tra nostalgia e appartenenza. Il paradossale lieto fine pensato da Roth, in cui Mendel riconosce il filgio perduto attraverso il presagio della Canzone di Menuchim è ben reso da Nielebock con l’apertura della scatola di legno su una fila di riflettori accecanti. Il mutismo di Menuchim si dissolve nel semplice e adamantino parlare di un bimbo smarrito che riconquista la propria famiglia e l’atmosfera serena (tutti i personaggi sfoggiano un sorriso arcaico) suggerisce che l’intero finale possa essere una sorta di sogno definitivo, un addio cechoviano al mondo dei vivi. Abbandonando la realtà in cerca della più profonda verità.
Sergio Lo Gatto
Questo articolo è apparso, in inglese e italiano, sulla rivista internazionale Conflict Zones Reviews. Proprietà dell’Union des Théâtres de l’Europe e de la Méditerranée. Per gentile concessione.
HIOB | JOB
dal romanzo Joseph Roth
adattamento Koen Tachelet
regia Lisa Nielebock
scene Oliver Helf
costumi Ute Lindenberg
musica Thomas Osterhoff
luci Andreas Bartsch
drammaturgia Kekke Schmidt
con Michael Schütz, Irene Kugler, Jana Schulz, Xenia Snagowski, Florian Lange, Damir Avdic, Klaus Weiss