Golem della compagnia britannica 1927 arriva al Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Recensione
Era il 1902 quando George Méliès trasferiva nel nascente cinema le tecniche dell’illusionismo che il teatro aveva, consciamente o meno, ricondotto a forma narrativa, per fare il suo primo – e per l’uomo – Le Voyage dans la Lune, tradotto per noi con una forzatura di linguaggio piuttosto intrigante: Il viaggio nella Luna, così diverso e non solo precedente e immaginifico rispetto a quello reale del 1969, “sbarco sulla Luna”, con il mondo al seguito dell’Apollo 11. C’è dentro questo cambio di preposizione un filamento di senso più spesso che determina un diverso approccio dell’arte, rispetto alla realtà: la curiosità di essere nelle cose, non solo raggiungerle ma penetrarle, esserne parte; quando invece gli uomini non sono artisti il loro, nostro, obiettivo appare più concreto e si misura nel modificare un “viaggio” in uno “sbarco”, una compenetrazione con un suolo ignoto – nella – con una presa d’atto che sia un progresso di presunzione, soltanto raggiungerlo – sulla – con una bandiera per testimone.
È invece 1927 non l’anno, ma il nome della compagnia britannica, fondata nel 2005 da Paul Barrit e Suzanne Andrade, che ha messo in scena Golem; lo spettacolo, dopo The Animals and the Children took to the Streets visto nel 2013 a Torino, raggiunge l’Italia – in prima nazionale – grazie al Teatro Vittorio Emanuele di Messina che sta cercando, con la direzione di Ninni Bruschetta e l’apporto di Corrado Russo per gli artisti internazionali, di portare in Sicilia spettacoli insoliti, in grado di far riflettere sulla realtà contemporanea.
Una tranquilla cittadina, quella di Robert e sua sorella Annie. Ma quando, da un inventore finora non troppo fortunato, il giovane e mite impiegato acquista un golem in grado di ovviare come servitore autonomo a tutte le incombenze pratiche dell’uso quotidiano, l’entità uomo-macchina si insedierà pian piano nella vita di Robert e dell’intera comunità, determinandone un cambiamento sostanziale in chiave consumistica e capitalista, attraverso una progressiva silenziosa trasformazione.
Se dunque Méliès aveva innescato il processo per cui l’animazione artigianale invadeva il campo del reale a tradurlo visionario, oggi il teatro si avvale di tecnologie digitali con il medesimo fine di far saltare i parametri dell’ordinario, per insinuarvi una complessità che risponda più precisamente alle dimensioni del pensiero contemporaneo. 1927 ha fatto di questa indagine dimensionale tra un primo piano fisico e un secondo digitale una forma stilistica di riferimento, ponendo nel dialogo tra le due dimensioni una linea narrativa in cui innestare un tema di discussione.
Ecco allora che la graphic novel, mescolandosi alla musica dal vivo e ai diversi piani di luce, prende forma attraverso la giustapposizione verticale dell’azione degli attori e il pannello su cui s’imprime una scenografia proiettata che non è fondale ma che, in movimento, diviene parte integrante del racconto.
Il tema ha dunque molto a che vedere proprio con l’uso degli elementi scenici e poggia su una ben precisa domanda: «abbiamo il controllo della tecnologia, o è lei che controlla noi?». Nulla di settoriale, dunque, ma un argomento che riguarda quasi totalmente l’uomo contemporaneo, preso in morsa tra le potenzialità di semplificazione offerte dalla tecnologia e la spinta prodotta dalle stesse perché sostituiscano il lavoro – e quindi l’esistenza stessa – dell’uomo. Ma se tuttavia durante la prima rivoluzione industriale un operaio come Ned Ludd poteva concretamente rompere un telaio come – neanche troppo simbolica – protesta contro l’impero della macchina, i protagonisti di questa vicenda finiscono per soccombere alla tirannia di una disposizione sociale che tuttavia dagli stessi uomini è posta e alimentata. È quindi un’autoaccusa, quella di 1927. Verso la mollezza di una società in ritirata, sconfitta dalla propria voracità, che non distingue più se stessa dalla propria riproduzione seriale. Eppure questa accusa, a tal punto rincorsa in anni dagli scenari apocalittici tracciati lungo una linea artistica da Orwell al Brazil di Terry Gilliam, da certi ambienti di Bolaño fino al Metropolis di Lang, al punk e tanto ancora, nel tentativo di farsi carico di istanze condivise sia nella salvazione che nella colpa cade nel rischio di retorica, mancando proprio un rinnovato lancio politico oltre quel che è già noto alla società di vittime/colpevoli, responsabile indefessa di ogni cosa la stia lentamente, silenziosamente, annientando.
Simone Nebbia
Teatro Vittorio Emanuele, Messina – aprile 2016
GOLEM
Prima italiana
Spettacolo in lingua inglese con sovra titoli in italiano
adatto a tutti – consigliato a partire dai 12 anni
Creato dalla compagnia inglese 1927
Scritto e diretto da Suzanne Andrade,
Film, animazione e design di Paul Barrit
Musiche di Lillian Henley
Sound design di Laurence Owen
Costumi di Sarah Munro
Drammaturgia di Ben Francombe
Drums e percussioni Will Close
Projection screen design di James Lewis
Realizzazione costumi di Sarah Munro
Responsabile di produzione Helen Mugridge
Con Charlotte Dubery; Will Close; Lillian Henley; Rose Robinson; Shamira Turner
Voce di Golem (registrata): Ben Whitehead
Voce di Golem aggiunta (registrata): Suzanne Andrade
Produzione: 1927, Théâtre de la Ville Paris, Young Vic Theatre (London) e Salzburg Festival.
Con il supporto di The Tolmen Centre Cornwall, Harrogate Theatre, Stratford Circus & The Old Markets
Durata 1 ora e 30 minuti senza intervallo