Francesca Blancato porta in scena il suo Apparecchio al Teatro dell’Orologio. Recensione
Andare a teatro per un critico, man mano che gli anni scorrono, è un passatempo di cui si tende a dimenticare l’origine primaria ma che, talvolta, proprio entrando in sala si riscopre. Lei si chiama Francesca Blancato, lo spettacolo si chiama Apparecchio. Nella sala grande del Teatro dell’Orologio una piccola, minuta presenza quella sulla scena, autrice, regista, anche attrice di questo piccolo reperto di urgenza rintracciato in una scrittura sensibile ma non compassionevole, capace di ordinare silenzi e meccaniche di scena dentro una maschera credibile ed efficace. Non sceglie un plot ma carica sulle proprie spalle un tratteggio di occasioni, ricorrenti con battiti imprecisi, come sempre nella vita; in queste apparizioni corpo e mente, che sentono il tempo scadere ma se ne curano quanto permesso alla decadenza di avvertirlo, invecchiano, con loro invecchia la percezione di vecchiaia.
Apparecchio. Una volta ci si chiamava l’aeroplano. Quando non erano superjet ma qualcosa che passava sopra la testa e chissà quanti ci erano saliti sopra una volta almeno. Apparecchio è anche un verbo, è una dichiarazione di ordine, di cura, è il preparativo per l’accoglienza di qualcuno ma chissà se qualcuno arriverà davvero. Non importa, si fa per sé, è il proprio desiderio di ordine e cura a prevalere, l’invitato si sentirà a casa soltanto se percepirà che l’ospite avrà cura della casa propria. E allora non è questione di termini, quelli desueti e i presenti, per dire le cose. Sono le cose stesse a dirsi, apparire sulla scena prive della retorica su cui viaggiare comode, purificate da accortezze vacue cui mal si accorda l’innocenza colpevolissima della vecchiaia, cattiva quanto quella dei bambini, indifesa quanto quella del teatro.
Un ospizio, alla fine di tutto. Dove nulla si può fare e non conta se si sia in grado o meno. È vietato dal regolamento. Vietato per età. Chi, vieta? Chi usa la falsa cortesia di definire i vecchi con un accorgimento linguistico che li dice anziani, chi cerca di determinare il decorso di vite altrui con l’eccesso di premura che supera gli steccati dell’assistenza e subordina il vecchio fino a che perda totalmente coscienza delle proprie esigenze, della propria individualità. C’è qualcosa di marcio, nella prossimità alla vecchiaia. Qualcosa che il teatro fotografa con l’evidenza dei frammenti, i particolari occasionali di un’azione come nascondersi in tasca e aprire con diligenza le caramelle Rossana, cercare la voce Mamma, scomparsa da anni, sulle Pagine Gialle tra arrotini e studi notarili, riempire cataste di cruciverba già fatti, semplificati, digeriti da altri vecchi prima di sé.
Ha voglia di stare lì in scena, Francesca Blancato, è animata dal desiderio dell’indagine, si domanda della propria vecchiaia e cerca di inscenarne una che le appartenga almeno quanto la disconosce. Il palco è grande ma la luce sagomata da Martin Palma le permette di adagiarsi senza patimenti nello spazio scenico, lo seziona a segmenti e vi lascia trapelare un sentimento che non la abbandona mai.
«sono io questa pelle secca
queste caccole agli occhi
sono io questo movimento del nulla
queste giornate sbrindellate
che se finiscono è uguale
meglio non lo so
ma uguale, uguale»
Sì, Francesca. Sei tu. Sei me. Sei tutti perché dell’evoluzione non c’è che la certezza di sfiorire. Ma farlo con dignità è questione di cura minuta verso sé stessi, di passione per quel che non possiamo ammettere ci sia sottratto. Ai vecchi non resta che l’amara certezza della desistenza, ma la virtù non degrada con il corpo, rende l’uomo nobile, emancipato. A suo modo, eterno.
Simone Nebbia
Teatro dell’Orologio, Roma – marzo 2016
APPARECCHIO
di e con Francesca Blancato
aiuto regia Maria Costanza Barberio
disegno luci Martin Palma
produzione Aut-Out
in collaborazione con
Rialto Sant’Ambrogio
Frosini/Timpano
residenza artistica Armunia – Castiglioncello