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Dall’inchiostro di Čechov, il gabbiano di Ostermeier

Alle Fonderie Limone del Teatro Stabile di Torino è andata in scena in prima e unica tappa nazionale il Gabbiano di Thomas Ostermeier. Recensione

foto Arno Declair
foto Arno Declair

La venatura caricaturale del dolore, trattenuta a fior di labbro dai personaggi di Anton Čechov, «il sublime pudore della sofferenza» che il poeta Fëdor Ivanovič Tjutčev indicava nell’anima russa. Tutto riversato nella china della tragedia, nell’inchiostro dello scrittore e ancora medico per puro sentimento umanitario, come durante il 1890 nella prigione siberiana. Quest’ultima suggestione accoglie lo spettatore in sala, proiettata sulla parete di fondo che diventerà poi scenografia: «Tutta la mia opera è intrisa del viaggio a Sachalin. Chi è stato all’inferno vede il mondo e gli uomini con uno sguardo diverso». I personaggi sono già in scena, in carne e ossa, e ghigno sul viso, sembrano aspettarci dal 18 ottobre 1896, giorno della prima rappresentazione – fallimentare – del Gabbiano a San Pietroburgo, opera che diverrà poi momento centrale nello sviluppo cronologico e poetico della scrittura dell’autore.

Che effetto farebbe l’inchiostro di Čechov, steso come lavabile nera sull’essenzialità di una scena moderna, tre enormi pareti grigie, le luci fredde, gli oggetti a vista ammassati ai lati, dei microfoni e una chitarra elettrica? Nello spettacolo coprodotto dal Teatro Stabile di Torino insieme al Theatre Vidy Lausanne e all’Odéon Théâtre de l’Europe, Thomas Ostermeier lascia intuirne l’esito dalla creazione pittorica di Katharina Ziemke: con un’asta e un rullo, dall’inizio alla fine dello spettacolo l’artista disegna e ripercorre la scenografia sulla parete di fondo, attingendo da tre secchi di vernice nera più o meno diluita l’astrattezza della proprietà di Sòrin – dove si consumano l’illusione e l’infelicità del giovane e tormentato Kostja – e le suggestioni di una regia che riversa il dramma dalla figura del protagonista nell’atmosfera contemporanea dello spazio riconvertito delle Fonderie Limone.

foto Jean-Louis Fernandez
foto Jean-Louis Fernandez

Sullo sfondo, da subito, l’inchiostro cola e, nella dissoluzione della forma, lascia così manifestare il simbolo. Senza mai davvero definirsi, quella che sembra l’ala di un gabbiano diventa un’onda, l’onda un lago, il paesaggio una strada che porta via dalla campagna – verso Mosca, verso il fermento del mondo – e infine il buio che copre, non lascia vedere. Così la scrittura, che dalla traduzione francese di Olivier Cadiot si versa nell’italiano dei soprattitoli e di alcune aperture in cui gli attori – decisi, ironici, francesi, nervi scoperti della regia e del ritmo di Ostermeier – si rivolgono al pubblico, cortocircuiti al microfono con l’aiuto di un giovane interprete. A dichiarare come la provocazione a un conservatorismo borghese ottocentesco e l’attaccamento a quei rubli si trasfigurino nell’imperialismo finanziario dell’oggi, il racconto di un tassista siriano a Parigi, inserito nella prima scena, trasforma così la lamentela di Miedvièdienco sul costo della vita in una lucida analisi, rivolta alla platea, contro il dazio che un uomo paga oggi per fuggire dal proprio paese e arrivare in Europa.

Questo Gabbiano di Ostermeier ha la pretesa di poter colare, di essere al di qua e al di là del realismo che già in Čechov era lontano da una pedante riproduzione del reale, permettendosi così di portare in scena il classico con la cifra stilistica del direttore artistico della Schaubühne, e mediante questa il tema dell’arte, dell’amore, della letteratura con e per gli occhi di una società che legge Houellebecq ed è ormai indifferente alla vista di un corpo nudo in scena.

foto Arno Declair
foto Arno Declair

L’appello del protagonista alle «nuove forme», le considerazioni sul teatro dopo la messa in scena della sua opera si trasformano in una (abusata, questo sì)  requisitoria di un teatro contemporaneo avvezzo a meccanismi vuoti ed estetizzanti che negano la possibilità di vedere la società oltre l’estetica di un linguaggio. I costumi di Nina Wetzel, gli oggetti, la drammaturgia di Peter Kleinert, sembrano rimanere in bilico tra il podere nel governatorato di Mosca e la quotidianità di un laptop sul quale lo scrittore Trepliov raggiungerà, senza mai soddisfare, la propria ambizione; o di uno smartphone con il quale Trigòrin indugia sul corpo del gabbiano morto, con la stessa morbosa attrazione rivolta a Nina, tentando di catturare quel futuro invocato ma ucciso e abbandonato dal profondo pessimismo di Triepliov. Tutto intorno ruota la distruzione de “l’uomo che avrebbe voluto” (come il soggetto consigliato da Sòrin a Kostja per una novella), del crollo di ogni fede e certezza in un oblio cercato nella febbre della vita, del lavoro, dell’amore.

foto Arno Declair
foto Arno Declair

Qual è il lago attorno al quale ci siamo rifugiati? Ostermeier continua durante tutta l’opera a far dialogare il dramma borghese con il pubblico, entrando e uscendo dal teatro, addentrandosi nella Russia di Čechov così come nell’Europa dello spettatore, con un linguaggio vibrante tra cambi scena a vista e provocazioni. L’amore del libro letto da Arcàdina nel secondo atto è oggi un più commerciale turismo erotico, l’oblio cercato dal giovane Kostja annichilisce nella vodka con la quale distrugge il proprio portatile prima di consegnarsi alla morte. Quale la cura? Con Nina fuggita via e l’indifferenza di una casa in cui si continua a giocare a tombola si consuma la tragedia di Kostja. Solo il medico, Dorn, se ne rende conto, dopo aver accompagnato con chitarra e voce una suggestiva colonna sonora durante tutto lo spettacolo insieme a Nina. Dorn lo dichiara riprendendo in mano il microfono, come se la tragedia – quella di Čechov, quella di oggi – ricominciasse ogni giorno: la questione è questa, Konstantín Nikolàevic si è ucciso. Noi, invece, che vogliamo fare?

Luca Lòtano

Teatro Stabile Torino, Fonderi Limone – aprile 2016

di Anton Čechov
traduzione e adattamento Olivier Cadiot, Thomas Ostermeier
drammaturgia Peter Kleinert
con Bénédicte Cerutti, Valérie Dréville, Cédric Eeckhout, Jean-Pierre Gos, François Loriquet, Sébastien Pouderoux De La Comédie Française, Mélodie Richard, Matthieu Sampeur
regia Thomas Ostermeier
scene Jan Pappelbaum
costumi Nina Wetzel
luci Marie-Christine Soma
musiche Nils Ostendorf
creazione pittorica Katharina Ziemke
produzione Théâtre Vidy-Lausanne
in coproduzione con Odéon – Théâtre de l’Europe – Théâtre National de Strasbourg – MC2: Grenoble – Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale – La Filature, Scène nationale –Mulhouse – TAP – Théâtre Auditorium de Poitiers – Théâtre de Caen
con il sostegno di Pro Helvetia – Fondation Suiss e Pour la Culture

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Luca Lòtano
Luca Lòtano
Luca Lòtano è giornalista pubblicista e laureato in giurisprudenza con tesi sul giornalismo e sul diritto d’autore nel digitale. Si avvicina al teatro come attore e autore, concedendosi poi la costruzione di uno sguardo critico sulla scena contemporanea. Insegnante di italiano per stranieri (Università per Stranieri di Siena e di Perugia), lavora come docente di italiano L2 in centri di accoglienza per richiedenti asilo politico, all'interno dei quali sviluppa il progetto di sguardo critico e cittadinanza Spettatori Migranti/Attori Sociali; è impegnato in progetti di formazione e creazione scenica per migranti. Dal 2015 fa parte del progetto Radio Ghetto e sempre dal 2015 è redattore presso la testata online Teatro e Critica.

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