Calderón di Pier Paolo Pasolini messo in scena da Federico Tiezzi al Teatro Argentina, prodotto anche dal Teatro della Toscana. Recensione
Siamo ancora all’interno di quel lungo solco tracciato dal tempo e cominciato lo scorso anno che pone Pier Paolo Pasolini al centro della vita culturale italiana per i 40 anni dalla sua morte? Oppure semplicemente – e diremmo anche finalmente – l’autore friulano è diventato un classico anche a teatro? La questione non è così retorica se parliamo dell’opera che Federico Tiezzi ha portato al debutto qualche giorno fa al Teatro Argentina, un lavoro che non risparmia sulla messinscena e coinvolge un ampio gruppo di artisti e tecnici nella creazione di un’opera d’arte dal carattere unitario e dal segno registico ispirato. Il Calderón prodotto dal Teatro di Roma e dal Teatro della Toscana, è insomma un Pasolini Nazionale al quadrato; fatto dalla borghesia, per la borghesia e contro la borghesia. D’altronde questa parola nel testo ritorna talmente tante volte che ai giorni nostri non è possibile tacere una certa ironia, in verità molto presente nel testo, che la drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi, ha evidenziato con metodo.
Il dramma, edito nel 1973, è forse il più maturo tra le prove teatrali di Pasolini: in una lettera a Garzanti del 1968 è lui stesso a retrocedere dalla decisione di pubblicare anche i lavori precedenti in un unico volume con la motivazione che Calderón fosse l’unico “abbastanza apposto” mentre gli altri avevano “ancora bisogno di essere riguardati e ricopiati prima di risultare leggibili”. Rimarrà così l’unica opera drammatica pubblicata mentre l’autore era ancora in vita.
Per decenni è stato considerato un outsider del mondo teatrale, troppo complesso per essere messo in scena, non un drammaturgo, ma uno scrittore prestato al palcoscenico. Eppure del Calderón di Pier Paolo Pasolini non può essere taciuta una tendenza alla sperimentazione e all’innovazione drammaturgica unica tra la scrittura teatrale italiana di quegli anni. Il testo ispirato a La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca (di cui rimangono i nomi dei personaggi e il tema onirico) è una sorta di matrioska nella quale si agitano le utopie già disinnescate di un’intera epoca, rappresentate come sogni: uno contiene l’altro fino allo svelamento conclusivo, comunque tutt’altro che rassicurante. La giovane Rosaura si sveglia da ogni sequenza onirica in una condizione sociale diversa (aristocratica, proletaria e medioborghese), alle prese con amori impossibili; come quello con Sigismondo che poi rivelerà essere suo padre o quello con un giovane studente. Sempre presente Basilio, ovvero l’incarnazione del potere, prima padre e re, poi marito. Naturalmente il rapporto di padre-figlia è determinante per Pasolini anche in questa opera: in una delle ultime scene Basilio, a proposito della moglie Rosaura, afferma «io sono anche suo padre, come sono anche suo figlio» la questione non è solo freudiana, ma anche politica e si esprime attraverso l’affermazione di un potere patriarcale.
Tiezzi, che arriva a questa produzione dopo aver messo in scena Porcile negli anni Novanta e aver lavorato sulla poesia dello scrittore di Casarsa sempre con Lombardi al fianco, fa leva sui risvolti onirici accelerandone la metafora sia nella drammaturgia che nell’impianto scenografico e sottolinea l’atmosfera con due temi musicali, Love Theme e Silencio, scritti da Angelo Badalamenti per Mulholland Drive di David Lynch. I sedici episodi sono rappresentati, nelle scene di Gregorio Zurla, in un unico ambiente: una sorta di casermone, uno stanzone rivestito di mattoncini scuri le cui pareti possono scendere o salire per mostrare e oscurare proiezioni e scritte al neon. Due grandi finestre lasciano passare all’occorrenza una fioca luce. Il palco è vuoto e gli attori non hanno molti oggetti o mobili su cui adagiarsi, un tavolo durante gli ultimi episodi e semplici letti da spostare: quello in cui ogni volta Rosaura si sveglierà, quello della sorella nell’episodio della borgata – qui vi è il primo cambio di attrice (dopo Camilla Semino Favro) e il regista chiede a Lucrezia Guidone una pennellata di romanesco nei toni, quasi a omaggiare il sottoproletariato della Capitale raccontato spesso da Pasolini (specchio della Spagna franchista in cui è ambientato il testo). Per il resto, il vuoto domina un palco che si riempie solo grazie alla presenza degli attori e allo slancio coreografico creato da Raffaella Giordano, lavoro prezioso che sottolinea ancora una volta la densità onirica della scrittura scenica. Peccato che la recitazione sia appiattita spesso su un modello cantilenante, una sorta di astrazione, di finto accademismo auotoironico che non sempre restituisce la complessità dei diversi piani testuali. È vero che questo rafforza la compattezza dell’idea generale e che è difficile immaginare quest’opera in un contesto naturalista, a Tiezzi non sarà sfuggito l’intervista di Walter Siti a Ronconi con cui si apre l’edizione dei Meridiani del Teatro di Pasolini in cui il regista del Piccolo evidenziava proprio come i personaggi non abbiano una valenza drammatica e psicologica, ma siano quasi dei portavoce, delle entità che si fanno portatrici del messaggio dell’autore, della sua autobiografia e anche dei suoi alter ego, insomma del discorso pasoliniano.
Ma appunto il discorso stesso è un tessuto intellettuale a trama fittissima che forse verrebbe servito meglio da un registro recitativo più ampio. Si stagliano la Rosaura del terzo episodio interpretata da Debora Zuin, Sandro Lombardi che veste i panni di Basilio e dello Speaker – una figura con cui il drammaturgo mette in chiaro la propria poetica lanciando qualche frecciatina al contesto teatrale dell’epoca e che qui è stata sottoposta ad alcuni tagli – e il personaggio del giovane rivoltoso nel finale, Enrique (Andrea Volpetti), che tenta una recitazione più quotidiana.
Però è al disegno generale che bisogna guardare, ed emerge un lavoro di grande scavo nel testo e nel mondo di Pasolini: per la sua regia Tiezzi raccoglie i numerosi indizi lasciati dall’autore e li fa esplodere con vigore amplificandoli criticamente. La visione politica e sociale (come la riflessione sulla sessualità e la diversità) d’altronde è tutta nelle parole: i dialoghi e i monologhi contengono già un piano surreale che astrae il discorso rafforzandolo, così quello che sarebbe chiacchiericcio diventa alta dissertazione. I riferimenti a Velasquez vengono restituiti nei costumi di Giovanna Buzzi e Lisa Rufini, il lager di cui si parla nel testo è uno stanzone vuoto, tutto trasmette una grande solitudine.
Poco prima del finale, nel monologo appassionatamente recitato da Debora Zuin, Rosaura racconta di aver fatto un sogno in cui era rinchiusa in un campo di concentramento fino alla romantica liberazione avvenuta a opera di una folla di operai – dove naturalmente la prigionia è la borghesia. Arrivano però gli occhi tristi e il volto bianco di Lombardi/Basilio che senza pietà fotografano la disillusione di un’epoca:
«Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero / un bellissimo sogno. Ma io penso / (ed è mio dovere dirtelo) che proprio / in questo momento comincia la vera tragedia./ Perché di tutti i sogni che hai fatto o che farai / si può dire che potrebbero essere anche realtà. / Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: / esso è un sogno, niente altro che un sogno».
Andrea Pocosgnich
Teatro Argentina, Roma, fino all’8 maggio 2016
CALDERÒN
di Pier Paolo Pasolini
regia Federico Tiezzi
drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
con (in ordine di apparizione)
Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro, Arianna Di Stefano
Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Ivan Alovisio
Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Andrea Volpetti, Debora Zuin
e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi e Lisa Rufini
luci Gianni Pollini
movimenti coreografici Raffaella Giordano
canto Francesca Della Monica
assistente alla regia Giovanni Scandella
la canzone “Ahi desesperadamente” è stata appositamente musicata da Matteo d’Amico