Teatro del Carretto dopo diversi anni torna a Roma con una versione de Le Mille una notte. Recensione
Quattordici spettatori nel foyer. Poi arrivano altri due gruppetti. Ma a stento si raggiungono i venti spettatori. Alla seconda replica è con un grande vuoto che la grande platea del Vascello accoglie il Teatro del Carretto, compagnia lucchese con più di trent’anni di storico, che ha visitato regolarmente diversi paesi esteri e che di rado, negli ultimi tempi, ha toccato la capitale. E questo è il primo colpo nello stomaco – decisamente involontario – che Le mille e una notte scritto e diretto da Maria Grazia Cipriani assesta.
Il sultano della Persia e dell’India Shahriyar, tradito da una delle sue mogli, vendica il torto decidendo di trucidare tutte le altre al termine della notte di nozze. Sarà Sharazad, figlia del Gran Visir, a placare la sua ira, offrendosi in moglie per esercitare poi una sorta di resistenza non violenta attraverso la diffusione di cultura, di bellezza: il suo racconto appassionato di mille e una fiaba, una per notte, le varrà un pegno d’amore, mettendo fine all’eccidio.
Il primo manoscritto delle Mille favole – originariamente destinate al racconto orale – risale circa al X secolo. E la domanda che sembra voler far sorgere il cupo spettacolo di Cipriani è «chissà quante donne sono state uccise da allora». Ma – per quanto il suo plot contenitore alluda in effetti alla violenza sulle donne – l’epopea persiana qui funge da semplice pretesto: il materiale drammaturgico della regista non attinge di fatto mai ai racconti dell’opera madre. Sindbad il marinaio, Ali Baba e i quaranta ladroni, Khalifa il pescatore di Baghdad o Aladino e la sua lampada meravigliosa lasciano il posto a Otello e Desdemona, Amleto e Ofelia, Pasifae, Teseo e il Minotauro, Orlando e Angelica, Ero e Narciso, Apollo e Dafne. Come se, in una panoramica che ha come filo conduttore il triangolo amore-violenza-morte, l’immaginario orientale venisse spazzato via da quello occidentale.
In scena la Sharazad di Elsa Bossi è vittima di due grotteschi aguzzini, Fabio Pappacena e Giacomo Vezzani, uno impegnato a dar corpo e voce prima al sultano poi ai vari personaggi che egli stesso, rapito dal racconto, si troverà a interpretare; l’altro una sorta di fool shakespeariano investito della funzione di burattinaio. La potenza degli attori si manifesta nell’uso del corpo, nella sinergia di attenzione e di tempi ritmici e può far leva sulle scene di Graziano Gregori, marchio di fabbrica di questa originale compagnia. A un primo sguardo nude e sommesse, recuperano il senso profondo del termine “essenzialità”: con l’aiuto dei tagli di luce di Fabio Giommarelli e i suoni lancinanti di Luca Contini, ogni piccola magia scenica è ottenuta con grande artigianato tramite la gestione degli spazi vuoti e un’accurata manipolazione degli oggetti, dal valore fortemente simbolico.
Tolto qualche momento di indugio su monologhi troppo affettati o siparietti fuori tono, il gioco di scatole e specchi funziona, scoprendo tuttavia il fianco a un’eccessiva razionalità nel contenitore, alla quale non basta precipitare in scene cruente per evitare il rischio di fondo di quest’opera, che non è nel linguaggio ma potrebbe nascondersi nel trattamento della tematica. Di bruciante attualità, proprio la riflessione riguardo la violenza sulle donne buca la metafora e, in sole due scene, consegna l’argomento in faccia al pubblico, in una macabra asta in cui si battono gli abiti insanguinati di vittime di stupri e sevizie da tutto il mondo e facendo piovere, sull’immagine della donna stesa a terra, una voce off che recita fatti di cronaca nera locale.
Il montaggio dei testi è ingegnoso e strutturalmente sorprendente, riesce a sostenere un complicato meccanismo di slittamenti: come l’opera araba presenta l’espediente della narrazione nella narrazione, così i tre performer danno corpo e voce ai racconti senza staccarsi mai da una sottile architettura metateatrale, in cui un ruolo fluisce nell’altro, sempre osservata da almeno un occhio esterno. Sopra ogni azione veglia una sorta di macabro destino superiore, onnipresente in scena nella forma inquietante di due scheletrini vestiti da principesse che girano al ritmo funebre di una nenia di pianoforte, leitmotiv minaccioso e qua e là ironico. È l’ironia, infatti, a tentare di stemperare in più punti una narrazione a contenuto troppo frontale, poco critico, che non può che generare nel pubblico un senso di forzata comunità. Una comunità, stavolta, troppo ristretta. Il cui applauso pur caloroso risuona in una sala quasi vuota.
Sergio Lo Gatto
Teatro Vascello, Roma – Marzo 2016
LE MILLE E UNA NOTTE
drammaturgia e regia Maria Grazia Cipriani
scene e costumi Graziano Gregori
suono Luca Contini
luci Fabio Giommarelli
con Elsa Bossi, Fabio Pappacena, Giacomo Vezzani
produzione Teatro del Carretto