Pascal Rambert alla regia di Prova, di cui è anche autore. In scena Anna Della Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi, Giovanni Franzoni. Recensione
Ad attraversare il palco del Teatro Fabbricone è un «chiarore atroce», lo sfolgorio di un Sole allo zenith che nega qualsiasi ombra e uniforma in un’identica nitidezza quattro corpi, alcune sedie, un tavolo in legno. Non c’è spazio per i chiaroscuri o i contrasti: le luci diffuse di Yves Godin trasformano la realtà compresa tra fondale e proscenio in una datità talmente comprensibile da poter essere descritta in ogni dettaglio. Le parole sembrerebbero potersi manifestare, almeno in questo luogo protetto, come riflesso speculare delle cose, eppure l’antico sogno di una lingua univoca e indubitabile è costretto a naufragare, ancora una volta, di fronte agli scherzi della memoria e alle prospettive del cuore. Prova, eccellente creazione testuale e registica di Pascal Rambert, costituisce un sofisticatissimo e commovente gioco che da teatrale si fa – complice Wittgenstein – linguistico, e che mira a confutare, in un circolo ossimorico, le possibilità conoscitive e pratiche del linguaggio nel momento stesso in cui ne celebra le straordinarie valenze sceniche ed emozionali.
Anna, Luca, Laura e Giovanni sono i quattro componenti di una compagnia un tempo affiatata, osservati dallo spettatore in un ordinario giorno di prove di quella che si rivelerà la loro ultima collaborazione artistica. Una trama esilissima, che Rambert tuttavia deforma in un continuo sconfinamento della realtà nella finzione: i nomi dei personaggi sono identici a quelli dei quattro interpreti dello spettacolo (gli straordinari Della Rosa, Lazzareschi, Marinoni e Franzoni), e frequenti sono i momenti in cui è interrogato il pubblico in sala.
Nei quattro monologhi che compongono il testo – una cifra stilistica alla quale l’autore aveva già fatto ricorso in Clôture de l’amour – minuscoli dettagli del quotidiano si rivelano non solo la scaturigine di abissali visioni su verità nascoste e finalmente emerse, ma soprattutto il movente per decisioni improvvise e definitive. L’intima epifania che subisce Anna in seguito all’«atto», ovvero uno sguardo galeotto tra Luca e Laura, ha la breve durata di un «battito di palpebre», ma cela l’adamantina consapevolezza della fine di una relazione, e con essa la volontà di interrompere quel sodalizio umano e professionale cementato durante un lontano viaggio a Gori, la città che diede i natali a Iosif Stalin. Quella gita – ennesimo moment of being in grado di travolgere, con i suoi inaspettati significati, le anime e i corpi dei componenti del gruppo – è l’evento passato al quale l’altalena del ricordo conduce separatamente i quattro: compiuta con lo scopo di ricercare materiale e ispirazioni sul bolscevico, si rivela nei racconti posteriori un’inesauribile scrigno di rimpianti e rimorsi, un collage i cui fragili frammenti – mani che si muovono veloci sul volante di una Golf GTI, o fiori che si disfano nel vento – compongono una figura indistinta e confusa, e ciò nonostante significativa.
La memoria è un organo ingannevole, al punto che nessuno è in grado di ricordarsi il colore dell’auto con la quale avevano compiuto l’itinerario, o l’esatto materiale del tavolo attorno al quale si consuma «l’atto». Fallibile e precaria, l’arte del ricordo si rivela però il cardine sul quale ruotare intere esistenze: e i lunghi assoli sono intervallati da stralci di quello spettacolo che i quattro avrebbero dovuto mettere in scena, come in un banale esercizio di quella “memoria” coessenziale allo stesso mestiere dell’attore. La vicenda della compagnia teatrale sfuma così, in un’ulteriore mise en abyme, in quella di un gruppo di amici che assistono, immersi nell’atmosfera festosa e malinconica degli anni Venti del Novecento, alla scomparsa dell’innocenza di un’epoca. Mentre i fermenti della Rivoluzione Russa iniziano a confondersi con le atrocità, le vite individuali fronteggiano il crepuscolo delle utopie e con esso l’indifferente coazione a ripetere indicibili orrori di cui la Storia non rende mai conto (il titolo originale, Répétition, allude in prima istanza al processo iterativo). In un’osmosi continua tra privato e pubblico, Rambert tratteggia così un disperato e riconoscibilissimo ritratto di una generazione che, volendo cambiare il mondo, si è accontentata di «scrivere dei drammi borghesi a partire dalla propria vita». Non è soltanto lo scandalo della Storia, o l’ignavia degli intellettuali, a rendere però impossibile qualsiasi narrazione veritiera o verosimile, quanto soprattutto il ristretto ambito di validità delle parole: «credi che si possa descrivere quello che avviene? credi che si possa descrivere il mondo?».
È infatti un’altissima riflessione sulla disfatta della lingua quella che appare cristallina al di sotto degli squarci di vita: una lucida analisi affidata paradossalmente a quattro esasperati soliloqui, ai quali gli altri attori in scena assistono a turno in un silenzio pressoché continuo, e in un’immobilità rotta soltanto da brevi passi lungo traiettorie rettilinee. Rambert, di formazione filosofica, fa deflagrare gran parte della speculazione che il Novecento ha dedicato al linguaggio: De Saussure, Austin, Foucault rappresentano così i convitati di pietra attorno a un tavolo dove la verità è ineffabile e muta. Non più atto performativo, il linguaggio è soltanto causa di malintesi: e con esso il teatro, che, inabile a «sostenerci», ci costringe a restare «girati sulla schiena come le tartarughe di mare». «L’atto» e la rivelata passione tra Luca e Laura hanno determinato il crollo della «struttura», atipico lemma con cui il gruppo identifica se stesso: e tuttavia è evidente come questo superamento post-strutturalista sia anche, e soprattutto, l’abbandono di ogni semplicistica teoria che voglia ricondurre i rapporti tra mondo e parola, o tra vita e Storia, a un fondamento ultimo, teorico e inconfutabile. Soltanto un elemento primigenio come la terra – sulla quale, come stanchi animali, gli attori crollano, uno alla volta, terminati i propri monologhi – sembra poter opporre una solidità incontestabile all’eterea voce umana.
Quale incarnazione di un verbo pagano può dare voce a chi, come noi spettatori, resta inebetito e muto di fronte agli interrogativi di Giovanni sul senso del male nel mondo? Rambert non offre consolatorie risposte, piuttosto illustra una costellazione di umanissime soluzione biografiche a insanabili contraddizioni: la via della fuga, dal gruppo e forse anche dalla realtà tangibile, per Anna (Della Rosa, in grado di alternare efficacemente ira compressa a malinconiche meditazioni); la carnalità e il sesso, per Laura (Marinoni, seduttiva e ferita); la scrittura come forma di conoscenza, per Luca (Lazzareschi, che tratteggia per sottrazione una dolente figura di intellettuale amareggiato). Al regista del gruppo, Giovanni (Franzoni, autore di una performance di struggente intensità) spetta il compito di instillare speranza negli uditori e invitarli a un provvidenziale risveglio: dal sonno della ragione, dall’acritica partecipazione, dalla noia ormai non più soltanto borghese. Prova è un lirico tentativo di ribellione al torpore con cui assistiamo al teatro dell’esistenza.
Alessandro Iachino
Teatro Fabbricone, Prato – marzo 2016
PROVA
testo, regia e coreografia Pascal Rambert
traduzione Bruna Filippi
con (in ordine di apparizione) Anna Della Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi, Giovanni Franzoni
scene Daniel Jeanneteau
luci Yves Godin
costumi Pascal Rambert
assistente alla regia Virginia Landi
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione