L’adattamento di Leo Muscato dell’Edipus di Giovanni Testori torna a Roma e va in scena al Teatro Piccolo Eliseo con Eugenio Allegri. Recensione
Il pubblico, nelle file dietro e davanti a me, si alza soddisfatto dalle poltrone del Piccolo Eliseo dopo aver applaudito Eugenio Allegri. «Questo è teatro», dicono due spettatori in prima fila, poi parlano di voli intercontinentali, di scali, di rotte infinite. E davvero bisognerebbe ripercorrerlo il volo a lungo raggio di Edipus, opera conclusiva della trilogia degli Scarrozzanti — che affida la riscrittura di tre classici a una compagnia di attori girovaghi — finita di scrivere nel 1977 da Giovanni Testori e interpretata da Franco Parenti prima e da Sandro Lombardi poi, ruolo che valse a quest’ultimo il Premio Ubu nel 1994. Composto dal suo autore dopo l’Ambleto e il Macbetto, l’Edipus scarrozzato nel terzo millennio dall’adattamento di Leo Muscato, disegnato sul volto e il corpo di Eugenio Allegri, è un testo che conserva parte della sua fortuna nonostante approdi in una terra altra, dove il naso rosso che l’attore veste in apertura e chiusura rimanda, più o meno esplicitamente, alla sua eredità legata alla Commedia dell’Arte e ammicca, nell’epilogo e nel preludio, a una comicità malinconica e raramente sferzante dalla quale è venata l’intera messa in scena.
Lo spettacolo, che proprio un anno fa sbarcava a Roma durante la rassegna Dominio Pubblico, torna stavolta al Piccolo Eliseo per due settimane e si misura con gli spettatori di via Nazionale ma soprattutto con il manifesto d’amore per l’arte teatrale che scrisse Testori, esacerbato nell’adattamento di Leo Muscato di buona parte di quella vis critica che denunciava la condizione culturale del teatro dell’epoca, e la bestemmia di un teatrante rimasto solo in un’epoca incapace di attraversare la catarsi e l’edificio del tragico, abbandonato per convenienze altre e soffocato dal potere laico, ecclesiastico, dall’istituzione. In scena, infatti, la sorte e l’innamorata rappresaglia artistica — la resistenza — di un capocomico alle prese con la tragedia universale di Sofocle, l’Edipo appunto, e con la tragedia personale di una compagnia di guitti che lo ha abbandonato, lasciandolo da solo a rappresentare l’origine drammaturgica del complesso reso famoso dalla teoria psicoanalitica. Con l’ «attor vegio» che piuttosto che interpretare Laio in teatri fatiscenti è partito a cercare miglior fortuna come «travestitico in d’una compagnia», e la prima attrice che ha barattato il ruolo di Giocasta con l’agio della borghesia, abbandonando i suoi vestiti di scena per aprire gli armadi nella casa di un «fabbrecante de Mobili», il Capocomico decide di portare avanti il carrozzone da solo, potendo contare solo sui vestiti appesi, su un assistente-assente che continuerà per tutta la serata a sbagliare luci e musiche della rivalsa dell’artista, e sulla propria passione.
«El teatro existe e rexisterà contra de tutti e de tutto, infino alla finis delle finis», è la litania snocciolata dal corpulento attore, sfinito dallo scarrozzare tra un cambio di costume e l’altro, tra l’essere padre e figlio e madre in un’incestuosa trinità che finirà per lapidare se stessa. In un vernacolo forgiato dall’autore che ha dell’italico la profanità del dialetto e del teatro la farsa del commediante, il registro del testo conserva quell’invettiva che mosse Testori nella scrittura dell’Edipus; il parricidio di un Laio-tiranno, in mitra papale e che annienta ogni dissenso, si rivela ben presto passaggio obbligato per la riscossa di Edipo, che dopo averlo evirato e ucciso ritorna nel ventre materno, lì dove il godimento della madre è autofecondazione della scena, fertilità e ricongiungimento, in un amplesso che a un tratto fa venire la pelle d’oca nonostante nel costume di Edipo ci sia ancora Allegri e Giocasta sia un manichino con abito di scena; la sala ora tace, fino a che l’attore si ferma, abbandona di nuovo la tragedia e con un «non si può recitare troppo seriamente» riprende i panni del guitto da avanspettacolo, mentre tutti sorridono, respirano.
Sul fondo della scena, che altro non è che una quinta a vista dietro una tenda trasparente, i costumi appesi, vuoti, sembrano un coro ammutolito e inerme che osserva spaurito i colpi di una mitragliatrice che abbattono in fine la protesta di Edipo.
Atto d’amore verso il teatro, è stato detto più volte. Nella vertigine di un’arte che rimane sola, la corporatura e la resistenza del commediante conservano una fragilità che non avrebbe nemmeno bisogno di essere esplicitata sullo schienale della poltrona, leggibile nell’incertezza sul riuscire a resistere anche domani. Nonostante Edipo e Testori sentano edulcorare il loro grido in tenerezza, vedere il capocomico riposare sfinito ma innamorato del suo mestiere, su un trono esautorato senza più esser né figlio e né padre, rende testimonianza a uno dei più importanti intellettuali italiani e alla poesia della sua denuncia.
La vertigine mi serra / alla pietà / dove t’avrò riconosciuto ancora, / non figlio più, né infante, / ma solo, disperato / e cieco amante. (Giovanni Testori)
Luca Lòtano
Teatro Piccolo Eliseo, Roma – marzo 2016
EDIPUS
di Giovanni Testori
adattamento di Leo Muscato
con Eugenio Allegri
regia Leo Muscato
scene e costumi Barbara Bessi
disegno luci Alessandro Verazzi
assistente alla regia Elisa Benedetta Marinoni
Produzione PIERFRANCESCO PISANI, NIDODI RAGNO, OFFROME
in collaborazione con INFINITO s.r.l.