Il Teatro dei Borgia ha presentato al Teatro Curci di Barletta La Locandiera, secondo capitolo del suo Goldoni Project. La recensione.
Carlo Goldoni non ha bisogno di molte presentazioni: noto tanto al pubblico che la guarda più o meno assiduamente quanto a chi la scena in un modo o nell’altro se l’è scelta per professione, il padre veneziano di una decisiva rivoluzione teatrale è riconosciuto come il principale responsabile dell’introduzione del testo scenico compiutamente scritto. L’innovatore che, un passo alla volta fra commedie, tragicommedie, tragedie, intermezzi e melodrammi, trasportò la prassi della recita a soggetto alla soglia del concetto di quanto oggi definiamo drammaturgia sul crinale calante della tradizione della commedia dell’arte. In un secolo, il Settecento, non privo di conquiste epocali e altrettante contraddizioni, il lavoro dell’autore si applicò, con una vocazione spesso forse poco illuminista e non per questo poco illuminata, in modo non trascurabile alla restituzione della realtà declinata su due piani principali, quello del ritratto di una società divisa in classi affastellate dalla contemporaneità delle proprie frizioni, e quello di un linguaggio così ancorato alla concretezza del parlare da valergli l’avversione convinta non solo di Carlo Gozzi. Tra le opere del commediografo, La Locandiera è certamente una delle più conosciute e riconosciute, ha visto succedersi nel tempo parecchi allestimenti, adattamenti e tentativi di riscrittura. A presentarla in debutto sul palcoscenico del Teatro Curci di Barletta la compagnia Teatro dei Borgia, con la regia di Gianpiero Borgia e un testo a cura di Fabrizio Sinisi. Seconda tappa del Goldoni Project inaugurato con Gli innamorati, l’allestimento è da intendersi come un passo ulteriore in un processo di scandaglio e riflessione sul genere della commedia.
La vicenda di Mirandolina – Elena Cotugno – viene trasposta dalla locanda all’interno del Lido Bellavista, uno stabilimento balneare di seconda o terza categoria, abbastanza lontano dai cocktail colorati sulle spiagge del Salento e dalla rivalutazione dei ristoranti in grotta di Polignano a Mare. A spendersi in lusinghe e contendersi l’amore della piacente proprietaria sono il Marchese Michele Maria Cartabuona del Gargano, tenutario di un qualche antico decaduto blasone, millantatore di amicizie e collaborazioni con starlette non solo televisive (da Pippo Baudo a Barbara D’Urso, da Kevin Spacey a Renato Zero) in realtà venditore di divani nientepopodimeno che a Tele Campobasso, e Domenico Conte o più semplicemente il Conte, rappresentante del consiglio comunale e in ogni senso della piccola classe dirigente con nemmeno troppo celate caratteristiche da parvenu. Si frappongono tra questi e la donna l’inserviente Fabrizio, amante segreto e sedicente promesso sposo, e il Cavaliere, misogino receptionist di un Grand Hotel di Termoli, che pian piano vedrà perire la sua avversione per il sesso femminile fino a commutarla in una passione succube e disperata senza possibilità di assoluzione. Nulla di diverso dunque, se non fosse per la contrazione da tre in due atti (con un cambio scena in calo delle luci) e per la contestualizzazione, che funge da punto nodale per una rilettura affrancata e affiliata al contempo all’originale.
Anche qui ad essere ritratti sono alcuni degli schemi ricorrenti, potremmo dire ormai stereotipati nelle dinamiche dei nostri giorni, e l’uso della parola si vuole più aderente possibile al quotidiano. É perciò in questo senso e rispetto a quanto si diceva in principio che si accerta la ripresa dell’intenzione goldoniana. Stagliata sul contrasto tra i colori decisi dei costumi e l’aura cianotica dei monolitici blocchi a ricordare piloni di cemento, adoperati per ridefinire lo spazio in relazione alle azioni (di volta in volta lettini da spiaggia, tavolo, bancone da bar, ecc.), popolata di caratteri ancor prima che da personaggi, avverata da prassi astute o avvilenti, la concrezione sociale vive nella dimensione scenica di naturalismo e stilizzazioni. Si alternano tirate monologanti, scene corali con buoni tempi comici e alcuni “a parte” in cui sono i protagonisti stessi ad estraniarsi e rivolgersi al pubblico per consegnargli commenti come trait d’union o inseriti come elementi meta-performativi. Resta qualche debolezza nella successione di alcuni concetti tra le battute, alcune delle quali arrivano forse troppo “telefonate”, e nel bisogno di una maggior messa a fuoco della temperatura recitativa, disorientata ancora dal cambio di tono verso la conclusione, senza tuttavia compromissioni decisive per la fruizione generale. Se infatti di norma la commedia scioglie felicemente le tribolazioni dei suoi protagonisti, nel nostro caso una sospensione insoddisfatta, insolubile lascia immutate le piccole grandi tristezze, le cancrene e i vuoti di queste figure, tanto cambiate alla fine della tenzone eppure tanto uguali. Ecco dove giace la discrasia con la commedia veneta settecentesca, dove si cerca il compimento di una metafora meridionale tutta odierna e insieme così datata, in quello scampolo di sud in cui molti se sono andati, in cui fra quelli che restano la gran parte tira a campare, si adatta e i pochi che tornano cercano di resistere non sempre con successo alla lotta con quanto sembra non poter cambiare mai. In quella parte di mondo dove un doge non c’è mai stato, dove la gente contempla, legge e racconta il mondo intero mentre “spacca le piazze” di mattina e “struscia” i viali la sera, in quella terra mordente e morsa dall’amore e dall’odio, dall’indifferenza dei suoi stessi vermi, in quel riverbero di luna e di gran sole in cui le speranze nascono e muoiono in attesa di perenne resurrezione, in cui il termine resta aperto sino alla discesa del sipario del buio.
Marianna Masselli
LA LOCANDIERA
di Fabrizio Sinisi
regia Gianpiero Borgia
con Gianpiero Borgia, Franco Ferrante, Giovanni Guardiano, Pio Stellaccio
scene Alvisi-Kirimoto
costumi Giuseppe Avallone
musiche Papaceccio mmc, Alex Terlizzi
responsabile tecnico e luci Pasquale Doronzo
ottimizzazione Michele Bia
foto di scena Marcello Norberth