Yerma di Federico Garcìa Lorca è la storia di una maternità negata. Con Elena Arvigo al Teatro Vascello di Roma. Recensione
È storia di ogni tempo, di ogni mondo. È storia del tempo, è storia del mondo. La storia di una donna. Yerma, nome di donna. Yerma, una donna. Il suo corpo è pronto ad accogliere un’evoluzione che le è negata, il dono del tempo che la rinnova e definisce il senso di un’esistenza invece rappresa: «una donna che non può avere figli è inutile come un mazzo di spine», eccolo il suo dolore d’aridità, di mancata speranza. Perché tutto si trasforma, evolve, tutto lascia sembianze per un corpo e si avvia a scomparire nel divenire di un corpo altro, Yerma no, lei annega lentamente, atto senza potenza, presente – perenne – senza futuro.
È questo dolore nelle pagine di Federico Garcìa Lorca che compongono Yerma, poema del 1934 tradotto e adattato da Roberto Scarpetti che Gianluca Merolli ha scelto di portare sulla scena del Teatro Vascello di Roma.
Luci dal basso, laterali, s’incontrano tra le nubi sospese a mezzo buio, un canto lacrimoso intride di suono l’oscurità, dalla sabbia come in una placenta si schiude il corpo di Yerma, nudo e giunonico, paradossalmente materno, si erge e si mostra allo sguardo, al canto che ne sottolinea il timore per un destino irredimibile. Sulla parete in fondo e i pavimenti si specchiano due quadrati di tappeti persiani, legati insieme in un intreccio intarsiato; agli angoli quattro sedie, nel mezzo, la vicenda: Yerma e un marito che fa di tutto per non darle un figlio come tutte le altre donne del paese, nonostante lei lo desideri, Yerma e un altro uomo che si appressa alla sua corte, al ventre riarso come terra lasciata incolta, Yerma e il paese intorno che insinua, irride, decreta, infine, il malanno della sua sorte.
Gianluca Merolli compone una scena elegante e raffinata (menzione speciale per l’armonia tra le luci di Pietro Sperduti e e le musiche di Luca Longobardi), in un dosato equilibrio di emozioni e movimenti, che ben si accorda alla struttura classica della vicenda, sostenuta anche da una recitazione esplicita, vibrata; l’intensità prodotta dal canto di Maurizio Rippa, cui è affidata in forma di coro una drammaturgia esterna alla vicenda ma non certo esteriore, intesse quella estatica oscillazione, quel piccolo silenzio d’ingresso alla parola, che un’attrice come Elena Arvigo, tra poche in Italia a non sparire mai dalla propria scena, è in grado di produrre. Ma di attori, bravi, l’Italia è piena, nonostante in pochi fuor di teatro lo sappiano; e così se la storia può procedere, e il poema non farsi rafferma ode a rischio di cristallizzazione della parola, è anche grazie ad attori trasformisti come Giulia Maulucci, Enzo Curcurù e lo stesso Merolli, capaci di tenere il raccordo di un matassa avviluppata al dolore.
Ma ciò che maggiormente colpisce, in una sala come il Vascello che soffre una scarsità di pubblico per uno spettacolo prodotto dallo stesso teatro, è l’aderenza crescente di un testo così antico, nella struttura e nel linguaggio, a una storia presente e viva, nel tempo delle adozioni utopiche, degli affidamenti negati, della grande riflessione attorno al tema della maternità, mai ancora conclusa Yerma dà così la possibilità, classica, appunto, di vedere interpretato il problema, averlo di fronte agli occhi e non nella propria riflessione razionale ma in una rappresentazione, ossia nel corrispettivo emotivo che l’esterno rimanda per i sensi. Forse questo modo, cui il teatro ricorre da millenni, è il solo perché di una vicenda si faccia riflessione, della riflessione si faccia storia.
Simone Nebbia
Teatro Vascello, Roma – marzo 2016 (in scena fino al 3 aprile 2016)
YERMA
di Federico Garcia Lorca
Regia Gianluca Merolli
Traduzione e adattamento Roberto Scarpetti
Attori Elena Arvigo, Enzo Curcurù, Gianluca Merolli, Giulia Maulucci e Maurizio Rippa
Scene Alessandro Di Cola
Costumi Claudio Di Gennaro
Musiche Luca Longobardi
Movimenti Luca Ventura
luci Pietro Sperduti
Produzione La fabbrica dell’attore -Teatro Vascello e Andrea Schiavo