DoIt Festival 2016 ha raggiunto il Teatro Planet. Ma sempre più a Roma ci si trova con artisti itineranti tra teatri, festival, rassegne, senza una rotta precisa. Qui Citizen X di Manuela Rossetti. Recensione
Misurare la forza dell’impatto con cui un evento vorrebbe incidere sulla vita culturale è sempre più difficile qui a Roma. Chi davvero non abbia tenuto il polso della città negli ultimi anni difficilmente riuscirebbe a capire certe dinamiche. Dal punto di vista teatrale ad esempio se alcuni spazi spariscono o cambiano gestione ce ne sono subito altri di nuovissima apertura pronti a immettersi in un circuito sempre più disordinato e ipertrofico senza nessun legame con le politiche culturali (che ora d’altronde sono in pausa fino alle elezioni lasciando bloccate questioni aperte come quella degli ex Teatri di Cintura). Però le idee sono come l’acqua, l’assenza di un supporto delle istituzioni e la cattiva gestione della cosa pubblica non le bloccano. C’è sempre qualche goccia che trova il modo di scorrere via. E se una volta le nuove idee, le andavamo a cercare negli spazi occupati, sociali e interdisciplinari, ora dobbiamo rincorrerle pagando il pegno di un nomadismo obbligato e alla ricerca della migliore offerta e sistemazione. Così è accaduto quest’anno alla seconda edizione del DoIt Festival, rassegna teatrale che tramite bando si impegna in una selezione di teatro emergente con annesso concorso e premio in pubblicazione per la casa editrice ChiPiùNeArt.
Angela Telesca e Cecilia Bernabei fino al 10 aprile saranno le padrone di casa del Teatro Planet, il piccolo spazio in zona Tuscolana/San Giovanni che accoglie il festival e di cui così poco si era sentito parlare. Angela e Cecilia sono le ideatrici della rassegna che ha l’obiettivo di scovare nuovi artisti e spettacoli basati su drammaturgie originali; ogni sera, prima che la scena si apra, presentano la rassegna e al termine promuovono brevi incontri tra artisti, pubblico ed esperti. Insomma una formula che di certo non sarà nuova, ma che permette di accostarsi alla creazione artistica in modo informale e libero.
Scorrendo il programma non si fa fatica a trovare certi nomi già visti in zona Roma Fringe Festival o Teatro Studio Uno. E infatti il problema più visibile delle numerose esperienze del teatro indipendente romano di oggi, successivo alla generazione degli spazi non commerciali è proprio quello di coltivare una scena che rischia di rimanere in equilibrio tra il professionismo, ovvero il lancio vero e proprio, e la continua peregrinazione tra un teatrino e l’altro di Roma, cercando di riempire la sala a colpi di 50/50 o 70/30. Questa differenza con il passato è centrale, perché il teatro indipendente che passava per il Rialto Sant’Ambrogio (per citare uno spazio storico della filiera sociale) ora è protagonista dei cartelloni dei grandi teatri.
Insomma il discorso è complesso e nella Capitale stiamo assistendo a un mutamento decisivo. Il ruolo di chi vorrebbe cercare qualche novità in un contesto del genere si è perciò molto complicato nonostante le rassegne come DoIt, anche perché questi stessi esperimenti debbono confrontarsi proprio con quelle problematiche economiche legate alla frequentazione di spazi che non hanno altri sostegni per la propria attività.
Ma bisogna avere pazienza, ricominciare da zero, e cercare qualcosa che abbia una prospettiva artistica autonoma. Citizen X visto qualche sera fa al Planet ad esempio è un lavoro interessante per la resa formale di un tema ormai abusato. In questo caso però le difficoltà con cui la protagonista si trova ad affrontare il mondo del (non) lavoro, afflitto come si sa dal liberismo più radicale, sono anche specchio di una incapacità di relazione e di adattamento per una società in cui apparenza e successo sembrano essere le due stazioni obbligate dello stesso inferno. Il testo e la regia di Manuela Rossetti si fondono con le creazioni video di Simone Palma che – insieme a una vecchia tv a tubo catodico – sono gli unici punti di luce della scena. Un’impostazione in grado di far emergere il dialogo continuo tra i linguaggi (oltre che il dialogo vero tra l’attrice e gli altri personaggi in video) ma che d’altra parte rischia di chiudere la progressione drammatica in un ritmo tutt’altro che sorprendente. Il lavoro però merita una certa attenzione anche per la drammaturgia ironica, alcuni interessanti strappi lirici e l’interpretazione sincera e autorale di Antonella Civale. L’attrice si trova a proprio agio nelle invettive come nelle parti più comiche o dolorose azzerando quasi quella distanza che normalmente ci sarebbe tra le parole di un autore e il lavoro dell’interprete.
Forse non è un caso che il lavoro di Manuela Rossetti sia nato a Roma, città ormai spersonalizzante per antonomasia e culturalmente afflitta dai problemi con cui abbiamo cominciato questa riflessione; dove il cittadino, anche quando elettore, facilmente può sentirsi come un “Citizen X”, incapace di influire sulle dinamiche di potere e di vita sociale.
Andrea Pocosgnich
Teatro Planet, Roma – Marzo 2016
CITIZEN X
Storie di ordinaria precarietà
di Manuela Rossetti
con Antonella Civale
digital performer Simone Palma
musiche originali Mauro D’Alessandro
con la collaborazione di Daniele Fabbri, Masaria Colucci, Alessio Pala, Ilaria Cenci e Ketty Roselli
Una considerazione:
Un plauso a queste iniziative. Alla eroica organizzazione di festival per la ricerca di nuove drammaturgie e nuovi talenti. La mia domanda è: a cosa serve al giorno d’oggi? Che speranze ha una ipotetica nuova drammaturgia o un nuovo talento? Leggo spesso recensioni di artisti elogiati che da anni è sempre relegata nei piccoli spazi off. Leggo di provini per attori dove la paga per lo spettacolo è il dividersi quel poco di incasso. Leggo critiche entusiastiche per spettacoli che scompaiono dopo le poche repliche. Il sottobosco del teatro ufficiale (che già se la passa male) non è più la famosa gavetta di una volta, dove si investiva per emergere. Adesso si fa gavetta praticamente sempre. Artisti che da anni si esibiscono costantemente senza cachet, in piccoli spazi e senza circuitare solo per poche repliche e poi tutto finisce li. E l’anno dopo li rivedi con un nuovo progetto.
Il LAVORO del teatrante, sia esso attore o regista o drammaturgo, dovrebbe appunto essere un LAVORO, ovvero la profusione di energie in cambio di denari. Ormai siamo al punto di pagare per allestire uno spettacolo ed esibirsi o se ti va bene di lavorare gratis pur di lavorare.
Quindi possiamo dire che in questi casi non è un lavoro ma un hobby, un passatempo per privilegiati.
Temo sia diventato una forma di egoismo e di egocentrismo. Esibirsi sempre e a qualunque costo per quella che molti definiscono la necessità di esprimersi
“Guardatemi io ci sono, non sono sparito, faccio teatro!”
La speranza è che questi festival possano essere davvero la vetrina per far emergere il talento di turno e non un baraccone di artisti che si bea e si auto elogia per essere appunto artisti.
Arrivati ad un certo punto non sarebbe più dignitoso un mesto ritiro?