Al Teatro Argentina di Roma l’autore francese va in scena con la lettura teatrale del suo romanzo Journal d’un corps (Storia di un corpo), spettacolo in lingua originale con i sopratitoli in italiano. Recensione
59 anni, 1 mese, 14 giorni. Del diletto di grattarsi. Quando Daniel Pennac seduto in scena sul palco del Teatro Argentina tira fuori dal taschino una penna e scosta la giacca per il piacere di trovare con millimetrica precisione il punto esatto dove sente il prurito, sembrano congiungersi su lui, contemporaneamente, più linee di forza: lì, sulla schiena dell’autore, la penna francofona del padre del Signor Malaussène trova il punto difficilissimo da indicare con esattezza all’altro – il proprio prurito – e trovandolo condivide l’apoteosi del sollievo con il corpo collettivo del pubblico, che gode anch’esso di quel “conoscersi”, coniugando la pratica di lettura individuale con l’esperienza spettatoriale. L’operazione che Daniel Pennac fa con l’adattamento teatrale di Journal d’un corps – Storia di un corpo, regia di Clara Bauer, gode del sovrapporsi dell’intenzione dell’autore, incarnata dalla voce francese e dalla gestualità d’oltralpe, al codice scritto e riconosciuto dallo spettatore nella lettura simultanea dei sopratitoli come reminiscenza del rapporto silenzioso e apparentemente unico, ma universale, che ognuno ha con il proprio libro, con il proprio corpo. Ciò che fa la performance orale, quale principale modello di appropriazione del testo scritto, riesce anche a Daniel Pennac con il corpo del protagonista del libro, reso in questo caso modello di appropriazione di quel patrimonio sensoriale che nella specificità del singolo accomuna la totalità della moltitudine.
Nell’epoca dell’ostentazione del corpo, in cui il nudo sembra essere corollario imprescindibile della scena teatrale contemporanea, Pennac porta invece a sbirciare con ironica empatia nel “giardino segreto” di un uomo; «più lo si analizza questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste» scrive il protagonista nella nota iniziale che lascia alla figlia, «di un altro corpo ho tenuto il diario quotidiano; del nostro compagno di viaggio, della nostra macchina per essere». Questo il regalo post mortem che la donna si vede consegnare dopo il funerale del padre, il corpo su carta dell’io narrante dall’età di dodici anni fino agli ultimi giorni della sua vita. Tra le parole proiettate come note scritte al momento sul fondo della scena, un tavolo con sopra un prato rigoglioso e qualche sedia, il corpo e la voce di Pennac si immergono nella prima persona, in quel livello in cui l’immaginario teatrale si riversa nella scrittura privata, in una dimensione più intima.
Qui, il pubblico trova e rivive gli odori e la densità energica dell’infanzia, gli orgasmi dell’adolescenza, i dolori brucianti, la potenza e la perdita del desiderio, lo stato di stupore che il corpo impone davanti al proprio mutamento e davanti allo spettacolo del corpo dell’altro, fino a descrivere quel corpo collettivo, quella fisicità che ci lega e permette agli affetti di essere toccati. La descrizione è sempre esplicita, l’osservazione non filtrata riesce a mantenersi limpida non scadendo mai nel morboso, che si parli di deiezione o di una merenda a base di mosto e uva; dal 1936 al 2003 il protagonista lascia percorrere il proprio corpo da buona parte del secolo, e nell’armoniosa condivisione a cavallo tra i due millenni si legge l’esperienza dell’insegnamento di un Pennac a suo agio tanto con la dialettica quanto con l’osservazione di diverse generazioni.
La tensione tra spettacolo e letteratura arriva al suo apice nel foyer, sulle copertine arancioni già autografate di Storia di un corpo. La testimonianza letteraria non è necessariamente testimonianza di una lettura certa. Daniel Pennac riesce in questo. Allora nella lettura personale del libro rivelatore è ascoltare il respiro più lungo delle 341 pagine e vedere di quel corpo cosa l’autore ha deciso di far restituire nell’ora e mezza di adattamento teatrale; come la voce ne abbia esaltato il lato comico e come le pagine più sofferenti siano state invece meticolosamente dosate, a volte nascoste. Quel briciolo di intimità protetta anche in una lezione d’anatomia. Poi, l’ultima pagina, l’ultimo respiro, l’ultima parola d’amore per la figlia. Il corpo di Pennac si gira nel buio, sparisce in un attimo e torna alla mente una frase letta qualche giorno fa: «Tutti quanti si ritorna terra, ma c’è una bella differenza che tipo di terra si ritorna: se terra disperata o terra innamorata». Anche questo, è il corpo.
Luca Lotano
STORIA DI UN CORPO
di e con Daniel Pennac
regia Clara Bauer
scene, luci e costumi Oria Puppo
animazione video Johan Lescure
musiche Jean-Jacques Lemêtre
coproduzione C.I.C.T. / Théâtre des Bouffes du Nord
Coproduzione Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
produttore delegato per l’italia Roberto Roberto per Laila srl
in collaborazione con Il Funaro