Truman Capote. Questa cosa chiamata amore al Teatro Niccolini di Firenze per la stagione del Teatro della Toscana. Testo di Massimo Sgorbani, con Gianluca Ferrato. Recensione
L’american dream ha la consistenza viscida del sangue di Bob Kennedy sul pavimento dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, o quella spugnosa della fronte di JFK, trapassata dai proiettili a Dallas. Ha il sapore ambiguo di un bicchiere di vodka trangugiato con il pentobarbital, e le fattezze tumefatte del volto di Marilyn Monroe, riversa senza vita sul letto candido. Né il gusto zuccherino della Coca-Cola, né i fermoimmagine di villette a schiera in technicolor hanno potuto celare la ferocia sotterranea alla società wasp dei ruggenti anni Sessanta: a rivelarne gli aspetti ora brutali, ora soltanto squallidi, fu anche, con divertita e sorniona eleganza, Truman Capote. L’autore di capolavori come Colazione da Tiffany e A sangue freddo sembra tuttavia soffrire ancora oggi di una ‑ invero assai tipica ‑ deformazione percettiva: il suo straordinario talento è, di fatto, soltanto una qualità accessoria di quel cinismo blasé e di quell’omosessualità ostentata che ne hanno fatto un’icona di stile, prima ancora che di grandezza letteraria. Fu lo stesso Capote ad alimentare questa immagine di sé, al punto da definirsi, in una celebre intervista rilasciata al New York Times, “alcolizzato, tossicomane, omosessuale, genio”, in una giustapposizione di caratteristiche talmente vertiginosa da conferire un’irriducibile complessità alla sua figura. Ed è con l’enigma dello scrittore americano che il Teatro Niccolini – la storica sala fiorentina, chiusa da più di vent’anni, che negli anni Settanta e Ottanta ospitò tra gli altri Vittorio Gassman e Carmelo Bene, e che da gennaio completa l’invidiabile poligono di spazi a disposizione del Teatro della Toscana – sceglie di confrontarsi in uno degli eventi di apertura della stagione.
Truman Capote. Questa cosa chiamata amore rivela però sin dal titolo l’intenzione di concentrare lo sguardo sul Capote intimo: quello traumatizzato da una madre crudele, quello ferito e abbandonato dagli amanti, quello ingabbiato da un anticonformismo al contempo alimentato e sofferto. La drammaturgia di Massimo Sgorbani isola Capote (interpretato da un fin troppo caricato Gianluca Ferrato) in una solitudine popolata da fantasmi; il lungo monologo, a metà tra la confessione e lo sfogo rabbioso, è diretto ora a Lauren Bacall, ora a Elizabeth Taylor, soprattutto a Marilyn Monroe, amica e testimone di una vita di trionfi e declini. Lo sguardo e la voce di Ferrato si rivolgono a sedie vuote, nere e dalle linee retrò, sparse ovunque su un palcoscenico occupato al centro da una cupa scrivania: diverse l’una dall’altra, sono accomunate da un cartellino bianco, legato a una delle gambe. È in mezzo a merce da campionario (le scene sono di Massimo Troncanetti) che infatti la dinamica regia di Emanuele Gamba fa muovere Capote: unico sopravvissuto in un vuoto universo mercificato, lo scrittore racconta un’esistenza votata alla difesa della propria identità, costantemente minacciata da uno star system crudele o, come nel caso di John Lennon e di Sharon Tate, addirittura assassino.
La battaglia contro l’ipocrisia e la tacita violenza che nutrono Hollywood è combattuta ricorrendo a un armamentario di feste opulente, cocktail e droga, mentre il contemporaneo massacro del Vietnam, lontano anni luce, è solo un pretesto per qualche battuta sagace. Irridere la Storia è per lo scrittore l’unica forma di sopravvivenza possibile di fronte all’Orrore: eppure il Capote di Ferrato suscita quasi tenerezza, in piedi sulla scrivania mentre danza sulle note di These Boots are Made for Walkin’ di Nancy Sinatra, o quando cerca di convincerci che il Vietcong giustiziato da Nguyễn Ngọc Loan ha guadagnato, con la morte e la famosa fotografia di Eddie Adams, quella celebrità riservata a pochi. Le gigantografie dei corpi martoriati dei fratelli Kennedy fanno così la loro comparsa circondate dalle lampadine a incandescenza di una qualsiasi petineuse; nella società dello spettacolo di debordiana memoria, tra il trucco di scena di una diva del cinema e il cervello che fuoriesce dal cranio di John Fitzgerald Kennedy c’è soltanto una differenza di prospettiva.
Fastidioso giullare di una corte infelice e vigliacca, il Capote di Gianluca Ferrato dileggia il re – con qualche concessione al macchiettistico – mostrandone la natura greve e codarda. Sgorbani eccede tuttavia nella provocazione stantia: le fenomenologie della fellatio, o le rivelazioni salaci sulla vita sessuale di qualche presidente, sembrano costituire soltanto l’aspetto superficiale di una trasgressione radicata non in una sessualità esibita, quanto piuttosto in un corto circuito, perseguito con tenacia, tra autenticità e finzione. La soluzione offerta dal drammaturgo sembra aggirare l’enigma Capote ricorrendo a un buonismo consolatorio, che traduce le aporie e le asprezze del personaggio in una posa al di sotto della quale si troverebbe una bontà cristallina e infantile. Mentre Let’s Misbehave di Cole Porter risuona insieme agli applausi nella piccola sala, ci si scopre però a sperare che l’innocua cattiveria di Capote sia stata molto più di un atteggiamento, e a rimpiangere quella brutale e maledetta felicità che essa, forse ingenuamente, sembrava promettere.
Alessandro Iachino
Teatro Niccolini, Firenze – febbraio 2016
TRUMAN CAPOTE. QUESTA COSA CHIAMATA AMORE
di Massimo Sgorbani
con Gianluca Ferrato
scene Massimo Troncanetti
costumi Fondazione Cerratelli e Laboratorio di scene e costumi del Teatro della Pergola
assistente alle scene Francesca Rossetti
tema musicale di Truman Maurizio Fabrizio
suoni Giorgio De Santis
assistente alla regia Jonathan Freschi
impianti e regia Emanuele Gamba
foto di scena Neri Oddo
produzione Fondazione Teatro della Toscana