Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Insieme a Platone, parliamo di dialettica e scrittura, quale delle due è eterna?
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
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La critica che Platone muove alla scrittura nel passo 275d-277a del Fedro anticipa un’importante dottrina dell’estetica teatrale del Novecento. Si tratta dell’affermazione che il discorso scritto sia “lettera morta” e inerte, che né può né vuole sostituire la parola viva, pronunciata da una persona viva. Platone rintraccia tre difetti del testo, ovvero il fatto: 1) di ripetere sempre la stessa cosa, quindi di non replicare con qualcosa di nuovo alle domande che gli vengono poste dai suoi lettori; 2) di non poter selezionare il suo pubblico, visto che chiunque – sia esso degno o indegno di considerazione – può procurarsi a buon mercato il volume che lo contiene; 3) di avere bisogno che l’autore o qualcun altro lo difenda, qualora ricevesse attacchi e critiche. Le virtù contrarie sono invece prerogativa della parola viva, che può allora rispondere alle questioni che altri le rivolgono, scegliere i propri interlocutori, giustificare a persone ostili le sue operazioni e le sue ragioni.
Malgrado questa notevole vicinanza dell’estetica teatrale del Novecento con la pars destruens del Fedro, Platone le risulta tuttavia ostile per due aspetti. Anzitutto, il filosofo non risparmia in realtà una critica anche al discorso parlato e recitato, qualora questi si mostri altrettanto rigido e disinteressato a rendere conto di quanto dice ai suoi ascoltatori. Egli ha in mente qui in particolare la recita del rapsodo, come si può intravedere più avanti nel passo 277e-278a, che non consiste in altro che in un discorso non preoccupato della fondatezza o della verità di ciò che riferisce, né si ferma a giustificare ad altri le sue asserzioni. Al pari della parola scritta, anche la parola recitata dal vivo risulta perciò morta, perché si limita a ripetere i contenuti che il suo autore ha già formulato, o ricevuto dalla tradizione.
In secondo luogo, Platone risulta inattuale e diverso dai teorici teatrali del Novecento, quando introduce la sua pars construens. Il filosofo non contempla la possibilità che un attore riesca a resuscitare il cadavere del testo, attraverso una sua vitale messa in scena e, a volte, una riscrittura o un “tradimento” dei suoi contenuti. Il meglio che ci si può aspettare dalla parola scritta è di aiutare il lettore a ricordare delle cose che aveva dimenticato col tempo. Per il resto, la scrittura è ritenuta essere un’attività poco seria, un gioco con cui svagarsi da soli o in compagnia.
Quando invece si vuole lavorare con serietà, sia il testo scritto che la recitazione devono lasciare spazio alla dialettica, ossia al discorso orale che, rivolgendosi a un interlocutore preciso, prova ad insegnargli il vero e a dargli gli strumenti per difendere da solo le conoscenze acquisite, che rimangono stabili nel tempo. Questo sapere potrà quindi essere trasmesso dall’ascoltatore a un terzo, e questo terzo potrà impartirlo a un quarto, e così all’infinito. Diversamente dal testo scritto e dal discorso recitato, fatti di parole morte, l’esibizione dialettica risulta essere allora una parola immortale e che si autorinnova. La dialettica è in altre parole eterna, mentre scrittura e recitazione appaiono essere prodotti effimeri.
Una tale contrapposizione è del resto espressa direttamente da Platone, quando introduce il paragona dello scrivere alla semina dei giardini di Adone. Quest’ultima serviva a commemorare la morte prematura del giovane uomo amato da Venere e ucciso per gelosia da Ares, attraverso la piantagione di fiori che si sviluppano entro otto giorni e muoiono poco tempo dopo. Ora, se il giardino dello scrittore assomiglia appunto a questo giardino e, dunque, si compone di fiori/piante dalla vita molto breve, il dialettico semina invece un giardino dove i fiori si mantengono eternamente, pur attraversando forse un processo di crescita molto più lento e faticoso. Per Platone, la morte non può perciò attecchire tra le rigogliose piante della dialettica.
Eppure, questa dottrina non è solo una vuota illusione che si scontra con il dato di fatto evidente che nulla sfugge alla caducità e alla dissoluzione (nemmeno i posteri, che avranno fine con la conflagrazione finale dell’universo), ma si infrange nel momento in cui un osservatore attento e smaliziato, cercando tra le piante dialettiche, trova un teschio sopra un piedistallo su cui la morte ha scritto: Et in Dialectica Ego. Trascura anche del tutto la possibilità dell’esistenza di un quarto giardino. Si tratta del giardino dell’attore in cui cresce il fiore del teatro che è ancora più effimero e fragile dei fiori delle piantagioni di Adone, dello scrittore, del dialettico, visto che muore nel momento stesso in cui nasce, e tuttavia risulta per questo essere il più delicato e il più bello. Esso raggiunge l’apoteosi nell’istante della sua dissoluzione ed è di una vitalità talmente intensa, che nulla lo può eguagliare. Chi vuole vivere e non aspira a una falsa immortalità preferisce così contemplare questa morte rapida, intensa e sfolgorante, ai tesori della dialettica platonica.
Quando un impero militare o finanziario crolla, la terra presto dimentica chi lo ha realizzato e governato. Di Alessandro Magno non è rimasto che un’ombra e il nome sui libri di storia; e ombre e nomi saranno i potenti di oggi come di domani. Ma quando muore un verso poetico o un piccolo gesto di un attore, il cosmo viene ferito e produce un terremoto, sebbene solo le orecchie più educate e sensibili possono avvertirlo, mentre l’anima si affeziona con ancora più forza a questa vita così breve. Si colgano dunque quanti più fiori del genere, finché si può: presto non ce ne sarà più nessuno e il loro aroma si disperderà al pigro vento della sera.
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Socrate: Perché di terribile, Fedro, la scrittura ha questo, che è veramente simile alla pittura dal vivo. E infatti i suoi prodotti stanno ritti come esseri viventi; ma, qualora si chieda qualcosa, molto solennemente tacciono; così anche i discorsi: potresti credere che essi parlino come se pensassero qualcosa; ma se tu rivolgi una domanda riguardo alle cose che dicono, con l’intenzione di apprendere, in qualche modo esprimono solo e sempre la stessa cosa. Quando poi una buona volta sia stato scritto, qualunque discorso circola dappertutto, allo stesso modo vicino a quelli che ne capiscono, come pure vicino a quelli cui non importa nulla, e non sa a chi bisogna parlare e a chi no. Se viene offeso o anche ingiuriato a torto, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre. Perché da solo non è capace di difendersi, né di portare aiuto a se stesso.
Fedro: Anche queste cose che dici sono giustissime.
Socrate: E allora? Consideriamo un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasca e quanto migliore e più potente di questo si sviluppi?
Fedro: Qual è questo e come dici che nasce?
Socrate: Quello che è scritto con scienza nell’anima di chi apprende, capace di difendersi da sé, e che sa di fronte a chi bisogna parlare e tacere.
Fedro: Tu parli del discorso di colui che sa, quello vivente e animato, di cui quello scritto potrebbe essere detto giustamente un’immagine.
Socrate: Perfettamente . E dimmi questo: l’agricoltore che ha senno, di quei semi a cui tiene e di cui desidera che ci siano frutti, potrebbe con serietà, seminando d’estate nei giardini di Adone, godere vedendoli diventare belli in otto giorni, o piuttosto potrebbe fare queste cose per gioco e per celebrare la festa, quand’anche lo facesse? E per quelli che l’interessano veramente, seguendo la tecnica agricola, dopo averli sparsi nel terreno adatto, sarebbe felice se nell’ottavo mese quanti ne ha seminato siano giunti a compimento?
Fedro: Così, credo, Socrate: alcune cose le farebbe seriamente, altre invece diversamente, come tu dici.
Socrate: Ma colui che ha conoscenza delle cose giuste e belle e buone, vogliamo dire che ha meno senno dell’agricoltore nei confronti dei suoi semi?
Fedro: Niente affatto!
Socrate: Allora non li scriverà seriamente, seminandoli in acqua nera, servendosi di una penna, con discorsi incapaci di portare aiuto a se stessi con la parola, incapaci di insegnare convenientemente il vero.
Fedro: Non è affatto verisimile!
Socrate: Non lo è, infatti. Piuttosto i giardini di scrittura, come sembra, li seminerà e scriverà per gioco, nel caso che scriva, costituendo per sé un tesoro di appunti, in vista dell’obliosa vecchiaia, nel caso vi giunga, e anche per chiunque segua la stessa traccia e godrà nel veder crescere le piantine delicate; ma, qualora altri pratichino altri giochi, abbeverandosi di simposi e di quanti altri divertimenti fratelli di questi, come sembra, invece che con questi, con quelli che dico io passerà il tempo giocando.
Fedro: Tu parli di un gioco bellissimo, rispetto a uno da poco, Socrate, quello di chi è capace di giocare con i discorsi e di comporre storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.
Socrate: È così in effetti, caro Fedro. Ma molto più bello, credo, è l’impegno serio su queste cose, quando uno, utilizzando la dialettica, presa un’anima adatta, pianti e semini discorsi con scienza, quelli capaci di venire in aiuto a se stessi e a colui che li ha piantati, e non senza frutto, ma portatori di un seme da cui verranno altri discorsi, crescendo in altre indoli, capaci di rendere questo seme immortale per sempre e di render felice chi ce l’ha, al massimo livello possibile per un uomo (Platone, Fedro 276e-277a)
Socrate: Colui che invece ritiene che nel discorso scritto, su qualunque argomento, ci debba essere necessariamente molto del gioco; e che nessun discorso, né in metro, né senza metro, che fosse degno di grande serietà, sia mai stato scritto né detto, come quelli che venivano recitati dai rapsodi, senza esame preliminare e senza scopo didattico, al solo fine di persuadere, ma che in realtà i migliori di essi non siano stati altro che uno strumento di rammemorazione per coloro che già sanno; e che invece solo in quelli insegnati e pronunciati a fine di apprendimento, e in realtà scritti nell’anima, riguardo al giusto e al bello e al buono, ci sia chiarezza e perfezione e ciò che è degno di serietà; e che sia necessario che discorsi tali siano considerati suoi, come figli legittimi, per primo quello che, una volta, trovato, resti dentro di lui, poi quelli che, figli e fratelli insieme del primo, siano germogliati in anime diversi di uomini diversi, secondo il loro valore; e che dica addio a quelli diversi da questi – questo sembra essere un uomo siffatto, o Fedro, quale io e te ci augureremmo di diventare (Platone, Fedro 277e-278b)
[Le due citazioni dal Fedro provengono da Fulvia de Luise (a cura di), Fedro: le parole e l’anima, Firenze, La Nuova Italia, 1997. L’occasione di tornare sul dialogo mi è venuta da un suggerimento di Viviana Raciti, che ringrazio]
Enrico Piergiacomi