Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Secondo appuntamento dedicato agli stoici e ai cinici.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
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Abbiamo visto nell’appuntamento precedente che esistono due modi di intendere il paragone del saggio con il buon attore. Uno è quello dominante nello Stoicismo di Zenone, Cleante e Crisippo, che suppone l’esistenza di una sorta di dio “dramaturg” che assegna agli uomini i ruoli da recitare, seguendo un disegno razionale e provvidenziale che chi ha la saggezza asseconda volentieri. Un altro modo di intendere il paragone è invece professato dai Cinici, o dagli Stoici vicini al Cinismo, come Aristone di Chio. Per loro, il saggio-attore non segue le direttive di un’entità divina, intelligente e provvidente, bensì recita nei panni di un personaggio che i capricci della fortuna irrazionale – equiparabile a un’impresaria teatrale – gli impongono di indossare.
Ma anche questa seconda concezione presenta diverse diramazioni, piuttosto che un filone unico e unitario. Ciò apparirà chiaro vedendo da vicino come l’equiparazione della fortuna con l’impresaria teatrale è delineata da due Cinici quasi contemporanei: Bione di Boristene e Menippo di Gadara.
Del primo filosofo abbiamo qualche frammento e diverse testimonianze. Una di questa è Arsenio, il quale riporta esplicitamente che Bione identificava la fortuna con un’impresaria teatrale. Ma la fonte più importante in tal sede è rappresentata da Telete, autore di diatribe fortemente ispirate al Cinismo. Stando alla diatriba Sull’autarchia, Bione ha una concezione positiva della fortuna, visto che egli la paragona a una poetessa. Benché non vi sia infatti un fine provvidenziale nei suoi allestimenti, la distribuzione delle parti obbedisce comunque a un nobile principio compositivo. Da un lato, la commedia della vita presenta sempre un intreccio in cui si riconoscono personaggi principali e secondari, personaggi che comandano e personaggi che vengono comandati, quelli che hanno molto e quelli che hanno poco. Dall’altro, tutti gli attori scritturati dall’impresaria entrano, recitano e poi escono serenamente dalla vita, come l’uomo altrove paragonato, sempre dallo stesso Bione, al convitato sazio che lascia il banchetto sul punto di finire.
Ma il filosofo cinico crede pure che la partecipazione agli spettacoli della fortuna ha un’utilità morale. Ognuno deve interpretare la parte che ha senza aspirare a un’altra, per non confondere le parti e non creare uno spettacolo irrappresentabile (ad esempio, il pedagogo che “governa” il suo unico alunno non deve ambire a recitare il ruolo del re, mancandogli il potere di governare su molte persone insieme), ma soprattutto per imparare dalla situazione in cui si trova a non dare troppa importanza ai beni esterni, quali la ricchezza. Ciò che conta è l’uso che si fa di quelli che ciascuno ha a disposizione, sicché chi ha poco può trarre comunque beneficio dalla sua condizione, coltivando la temperanza, mentre chi ha molto non deve accontentarsi di mantenere inalterati i suoi possessi, bensì donarli a chi ha meno.
La conoscenza di Menippo è di contro prevalentemente dipendente da due operette di Luciano di Samosata, ossia il Menippo, ovvero Il negromante e L’icaromenippo. Esse presentano una versione molto più cupa rispetto a quella di Bione, perché dello spettacolo della fortuna viene sottolineata la vanità e non l’utilità, così come la confusione e non il principio compositivo. Per rendere il lavoro vario e movimentato, l’impresaria della commedia umana assegna il ruolo di re o mendicante a chi capita, a prescindere che lo sappia recitare o meno, e subito dopo lo muta nel suo contrario. Accade così che la stessa persona si trovi a recitare più ruoli in un’unica vita, a essere Agamennone e poi Tersite, o viceversa, senza una ragione apparente, eccetto quella della necessità di portare avanti la grottesca baracca teatrale. Come se ciò non bastasse, Menippo nega che chi abbandona la vita dopo aver recitato la sua parte ne esca appagato. Uomini e donne tornano alla condizione che avevano prima di nascere, vale a dire al nulla. Da ciò segue pure che il teatrino della fortuna crea in fondo differenze di status o di valore inesistenti. Agamennone e Tersite, il ricco e il povero, il potente e il suddito sono tutti nullità. Il tempo trascorso nella vita mette momentaneamente sullo sfondo questo inevitabile nulla, ma che riappare alla coscienza in modo lampante con l’arrivo della morte.
La concezione menippea si distingue infine dal Cinismo di Bione e altri per l’assenza del motivo del saggio attore. Se mai la saggezza esistesse, essa sarà posseduta da colui che, come lo stesso Menippo, sceglie di non partecipare allo spettacolo della fortuna e di deriderlo con gusto, guardandolo dall’alto della superficie della luna ben rotonda. Forse una tale soluzione sparge un pizzico di ottimismo in una visione prettamente pessimistica. In fondo, Menippo trova il senso della commedia della fortuna nella sua totale mancanza di senso e trascorre la vita umana senza false serietà, godendone invece con incontenibile leggerezza.
Non possiamo purtroppo sapere fino a che punto le testimonianze esaminate restituiscano il vero pensiero dei due filosofi cinici. Telete potrebbe attribuire a Bione le sue proprie idee, visto che egli usa il paragone con l’attore in altre diatribe (Sull’esilio e Sugli avvenimenti) in termini molto simili. Lo stesso potrebbe valere per il rapporto verso Menippo di Luciano, il quale come vedremo in futuri appuntamenti costruisce le sue satire ricorrendo spesso a metafore tratte dall’immaginario teatrale. Comunque stiano le cose, le rappresentazioni ciniche inducono a leggere gli accadimenti casuali della nostra esistenza in termini estetici. A seconda del temperamento, ciascuno potrà scegliere se calarsi interamente nei casi fortunati o sfortunati della vita e a viverli con la stessa intensità dell’attore che recita, oppure se scrutarle da lontano, con sguardo disincantato e allegro.
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Lo stesso [Bione] affermava che la fortuna è simile all’impresario: a qualcuno dà la parte del protagonista, ad un altro quella del personaggio secondario, ad alcuni il ruolo di re, ad altri del pezzente (Arsenio, Violetum p. 150 = Bione di Boristene, fr. 16b Kindstrand)
Come il bravo attore deve recitare bene qualunque ruolo gli è assegnato dal poeta, così l’uomo buono lo fa con quello che riceve dalla fortuna. Dice Bione che, al pari della poetessa, ella conferisce ora il ruolo principale, ora uno secondario, e a volte la parte di re, a volte quello di mendicante. Sicché, se hai un ruolo secondario, non ambire a uno principale; in caso contrario, agirai incoerentemente. Dice: tu governa bene, io sono governato, e tu comanda a molti, io essendo pedagogo comando a uno solo, e tu ricco elargisci liberamente, io povero ricevo da te con fiducia e non mi offendo, né sono meschino, né mi lamento. Tu impieghi bene molte cose, io poche: infatti, dice, non l’abbondanza premia, né quel molto in sé è utile, mentre non è assurdo che quel poco [lo sia] quando vi è semplicità unita a temperanza (Telete, Sull’autarchia, pp. 5-6 = Bione di Boristene, fr. 16a Kindstrand)
Se è possibile, il povero rimane in vita, altrimenti se ne distacca prontamente. Come esce da una festa, così se ne va dalla vita. Dice Bione che, come noi siamo scacciati dalle nostre case, quando il padrone che non ha ricevuto la rendita dovuta si prende prima la porta, poi arraffa la ceramica e infine ferma la ruota del mulino, così io vengo gettato via dal mio corpo quando la natura padrona si prende prima i miei occhi, poi le orecchie, quindi le orecchie, le mani, i piedi. Io a quel punto non resto, ma come se stessi lasciando un banchetto senza alcun dispiacere, così lascio la vita: quando arriva l’ora, salgo sulla mia nave. Al pari del bravo attore che recita bene il prologo, lo sviluppo e l’epilogo dello spettacolo, così l’uomo buono vive bene l’inizio, il mezzo e la fine della sua vita (Telete, Sull’autarchia p. 15-16 = Bione di Boristene, fr. 68 Kindstrand)
Ebbene, mentre le guardavo mi sembrava che la vita umana sia simile a una lunga processione e che la Fortuna allestisca e disponga ogni cosa, assegnando ai partecipanti costume diversi e pittoreschi. E così preso uno, a caso, lo vesto da re, imponendogli una tiara, accordandogli guardie del corpo e incoronandogli il capo con il diadema, mentre a un altro fa indossare un costume da schiavo; e ancora, uno lo adorna in modo da farne una bellezza, un altro lo concia sino a ridurlo a una caricatura buffa e deforme. Poiché, credo, lo spettacolo deve essere il più vario possibile. E spesso nel bel mezzo della processione cambia i costumi di alcuni personaggi, non lasciandoli sfilare fino alla fine com’era stato loro imposto, ma mutando gli abiti costringe Creso a indossare il costume dello schiavo e prigioniero di guerra, invece riveste Meandrio, che fin allora aveva sfilato nel gruppo dei servi, con la tirannide di Policrate. E per un po’ lascia sfoggiare il costume; ma poi, quando il tempo della processione è finito, allora ognuno restituisce l’acconciatura e, sfilandosi di dosso il costume insieme con il corpo, diventa tale e quale era prima di nascere, in nulla dissimile dal suo vicino. Pure, alcuni scriteriati, quando la Fortuna incombe e richiede gli ornamenti, soffrono e si sdegnano come se venissero spogliati di qualche loro proprietà e non stessero, invece, restituendo ciò che avevano preso in prestito per un attimo. Credo che anche tu abbia visto spesso, fra i teatranti, questi attori tragici che per esigenze di copione diventano ora Creonti, ora Priami o Agamennoni: se è il caso, la stessa persona che poco prima ha recitato con somma dignità la parte di Cecrope o di Eretteo poco dopo, a comando del drammaturgo, entra in scena nel ruolo di schiavo. E infine, a rappresentazione ultimata, ognuno di loro sfila via il vestito intessuto d’oro, depone la maschera, scende dai coturni: e va a spasso da povero tapino, non più chiamato Agamennone di Atreo o Creonte di Meneceo, ma Polo di Caricle del demo del Sunio, o Satiro di Teogitone del demo di Maratona. Ebbene, tali sono anche le vicende umane, come allora mi pare di vedere (Luciano, Menippo, o Il negromante, § 16)
Ma appunto così, amico, fanno tutti i coreuti che stanno sulla terra e la vita degli uomini non è altro che una disarmonia di tal genere. Anzi, non solo cantano in maniera dissonante, ma sono diverse anche le loro figure, si muovono in direzioni opposte, mentre non hanno nessun piano in comune, finché il corego non caccia ciascuno di loro dalla scena, dicendo di non avere più bisogno. Da questo momento in poi diventiamo tutti uguali, ormai ridotti a tacere, e non partecipano più con le loro stonature a quel canto confuso e senza regola. Ma allora, in quel teatro, fatto di spettacoli di ogni sorta e di ogni forma, tutto quello che vi avveniva non poteva che essere ridicolo (Luciano di Samosata, Icaromenippo, § 17)
Costoro si sono divisi in sètte e si sono inventati labirinti di parole uno diverso dall’altro: così si sono dati il nome di Stoici, di Accademici, di Epicurei, di Peripatetici e altri ancora più ridicoli di questi. Poi, ammantandosi dell’austero nome della virtù, col volto accigliato, la fronte corrugata e la barba e la barba ben stirata, se ne vanno in giro mascherando i loro costumi ripugnanti con l’artefatto aspetto esteriore, davvero simili a quegli attori tragici, dei quali, se togli loro la maschera e la veste ricamata d’oro, non resta altro che un omuncolo ridicolo, ingaggiato per sette dracme nello spettacolo (Luciano di Samosata, Icaromenippo, § 29)
Contro chi crede che l’esilio renda gli uomini più vili, si potrebbero presentare legittimamente dei paralleli tratti dalle arti. Allo stesso modo in cui uno non suona il flauto o recita in modo peggiore se è straniero, così [non è meno buono fuori dalla patria] chi non vuole esserlo (Telete, Sull’esilio, p. 21)
La fortuna è come una poetessa che crea una moltitudine di personaggi: il naufrago, il povero, l’esiliato, l’illustre, l’oscuro. L’uomo buono deve dunque interpretare al meglio quanto gli capita. Naufrago, affronterà la situazione con coraggio. Divenuto povero da ricco che era, abbraccerà la povertà degnamente (Telete, Sulle circostanze, p. 52)
[Le fonti su Bione di Boristene sono raccolte da Jan Fredrik Kindstrand (ed.), Bion of Borysthenes: a collection of the fragments, Uppsala, Almquist & Wiksell intenational, 1976, mentre le diatribe di Telete sono pubblicate da Otto Hense (ed.), Teletis reliquiae, Hildesheim-New York, Olms, 1969. I passi citati dai due volume sono tradotti da me. Invece, le traduzioni degli estratti da Luciano appartengono ad Alberto Camerotto (a cura di), Luciano di Samosata. Icaromenippo, o l’uomo sopra le nuvole, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, e a Carla Ferretto, Il negromante, in Umberto Albini (a cura di), Luciano di Samosata. Il negromante; L’Alessandro, Genova, ECIG, 1988, pp. 15-82]
Enrico Piergiacomi
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Ma tutto questo per ciò che riguarda il saggio-attore! Mentre invece l’attore-saggio prova ad abitare un mondo analogo, dal quale riesce a vedere il saggio-attore che “recita” con diligenza ed intenso dramma tutti i casi che la sorte gli riserva, ma vede anche Menippo, che gode (amaro poiché solo) dalla sua luna presunta superiore. L’attore-saggio, nel suo mondo analogo, non è più saggio, ma vacuo (nel senso orientale del termine; si fa cioè vuoto per poter meglio accogliere il tutto) e sorride, sia dei diligenti attori, sia di Menippo (poiché guarda pensando di non esser guardato). L’attore vacuo si trova infine d’accordo con lo stesso Menippo quando sferraglia pensieri circa il ritorno al nulla.
Buonasera Enrico, mi scuso per quest’entrata di sorpresa! La colgo come occasione per un saluto ed un grazie.
Claudio
Caro Claudio,
mi sono mancate le tue sempre limpide osservazioni. La tua proposta di distinguere un attore-saggio da un saggio-attore è molto interessante e ci voglio riflettere bene. Ad ogni modo, penso che anche il Cinico si faccia vuoto, per accogliere e accettare tutto ciò che la sorte gli riserva: in fondo, si anche lui si fa “cavo”, liberandosi delle opinioni comuni (ex., che la ricchezza è un bene), abbandonando ogni possesso (tanto che egli vive in povertà deliberata) e trascurando ogni altra cosa che non sia la virtù morale. Forse ciò che distingue le due figure sono le modalità di questo “svuotamento” i modi, non so. Come ho scritto, ci devo riflettere.
Sono poi perfettamente d’accordo che anche Menippo “viene guardato” e che ha poco di cui essere orgoglioso. Anche questo ruolo di spettatore sprezzante gli è riservato dalla fortuna, che ridacchia alle sue spalle e lo tiene ancora stretto al suo giochino. E poi magari ha ragione Büchner con la favola della nonna nel “Woyzeck”, a dire che da vicino la luna è un pezzo di legno marcio. La caducità e il nulla arrivano così persino nelle regioni più alte del firmamento. A presto,
Enrico.